domenica 28 novembre 2010

Lago Titicaca a rischio siccità

Il lago Titicaca, il più grande del Sudamerica, si trova a quasi quattromila metri di altezza sull'altopiano tra il confine della Bolivia e del Perù. Poco lontano da Puno, città sul lago Titicaca, ci sono circa 40 isole galleggianti fatte di canne di totora, sovrapposte in molteplici strati, sulle quali vive l’antico popolo degli Uros. Le isole artificiali sono state realizzate nel passato per sfuggire dagli Incas e oggi sono ancora abitate dai discendenti di chi cominciò, secoli fa, a vivere nel lago. Ogni isola ha una durata media di circa 30 anni e le famiglie che vi abitano vivono per lo più di pesca che praticano con le loro peculiari imbarcazioni sempre fatte di canne.

Questo particolare ecosistema ed altre zone della Bolivia, compresa la sua capitale La Paz, potrebbero diventare un deserto se le temperature, a livello mondiale, aumentassero più di 1,5 o 2 gradi. La ricerca, finanziata dalla National Science Foundation, afferma che se le proiezioni riguardanti il riscaldamento globale continuano, La Paz potrebbe dover affrontare una siccità "catastrofica". Questo scenario potenziale sarebbe disastroso per l'approvvigionamento d'acqua nel deserto e per la capacità agricola di due milioni di persone nella capitale boliviana, dicono gli scienziati in Global Change Biology. Potrebbero essere minacciate anche delle zone del Perù.

I ricercatori del Florida Institute of Technology sono arrivati a questa conclusione dopo aver analizzato il record storico ambientale delle Ande. Hanno scoperto che in due degli ultimi tre periodi interglaciali, cioè tra 130.000-115.000 anni fa e 330.000-320.000 anni fa, il Lago Titicaca si è ridotto di ben l’85 per cento. Le praterie arbustive adiacenti il lago sono state sostituite da deserto. In una prima fase, si è verificato un riscaldamento costante che ha costretto gli alberi a spostarsi più a monte, proprio come sta di nuovo accadendo oggi. Successivamente, quando il clima continuò a riscaldarsi, il sistema si trasformò da foresta a deserto. Una ricostruzione ambientale dimostra che con il riscaldamento moderato, le foreste si sono spostate a monte e questo significa che c’era abbastanza acqua piovana per far crescere nuovi alberi. Ma, con il clima che continuava a riscaldarsi, è stato raggiunto un punto limite in cui le cose sono cambiate rapidamente.

Il sistema è precipitato in una siccità che ha fermato l’espansione della foresta. Il punto di svolta è stato causato da un’accelerazione della perdita di acqua per evaporazione dal lago Titicaca. Mano a mano che il lago si contraeva, gli effetti sul clima locale attribuibili a un grande lago come il raddoppio delle precipitazioni dovute all’umidità rilasciata dal lago sarebbero andati perduti.

Attualmente, dato il tasso di riscaldamento nelle Ande peruviane di circa 0,3-0,5°C per decennio, il punto di non ritorno potrebbe essere raggiunto tra il 2040 e il 2050.

Fonte: (FmBolivia)

domenica 14 novembre 2010

Bombe nascoste


Sembra che ci si sia accorti solamente in questi giorni che nei mari di tutto il mondo sia presente una enormità di relitti navali. Il mensile “Focus” , successivamente all'uscita della notizia da parte del “New Scientist”, pubblica un articolo molto interessante. Sembra che si possa parlare di un'ecocatastrofe postbellica, infatti dopo quasi 70 anni dall'affondamento di 8.659 relitti (tra queste più di 1500 petroliere), l’acqua salata ha corroso le lamiere fino al limite della tenuta dei serbatoi contenenti, oltre al carburante, varie sostanze chimiche tra le quali l’iprite, tutte potenzialmente pericolose .
L'iprite è una sostanza chimica pericolosissima, da sempre proibita da tutti gli accordi umanitari internazionali che, una volta gli eserciti avevano comunque in dotazione, per rispondere ad eventuali attacchi chimici dei nemici.
Verso la fine del conflitto le armi chimiche divennero un fardello imbarazzante da far scomparire e si decise di farle affondare. In Italia gli alleati le inabissarono al largo di Manfredonia e davanti all'Isola di Ischia, mentre Hitler ne ordinò invece lo smaltimento nei fondali a sud di Pesaro, dove sono tuttora e costituiscono una seria minaccia per l'ecosistema marino.
Nel Mediterraneo se ne contano 361 e, a causa dei processi corrosivi, potrebbero presto rilasciare in mare una quantita' di carburante 20 volte superiore a quella uscita dalla piattaforma della BP nel Golfo del Messico e 10 volte la perdita della Exxon Valdez.

Fonte: (New Scientist)

domenica 31 ottobre 2010

Cucinare senza morire


Sembra impossibile per noi che viviamo in un mondo occidentale, industrializzato e benestante, ci siano ancora dei dati che confermano che circa 1.9 milioni di decessi annuali siano dovuti al malfunzionamento di stufe a legna usate prevalentemente per cucinare (dati Organizzazione Mondiale della Sanità).

Nei paesi meno sviluppati, la maggior parte delle persone cucinano con stufe che utilizzano il legno, petrolio o sterco per combustibile. Tutto questo rappresenta una grande fonte di inquinamento per la casa e l'ambiente. Le stufe mal funzionanti emettono ad esempio: biossido di carbonio, nero di carbonio e metano, tutte sostanze che contribuiscono al cambiamento climatico e provocano malattie come: la polmonite infantile precoce, enfisema, cancro polmonare, bronchite, malattie cardiovascolari e il basso peso alla nascita. L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che i fumi derivanti dalle cookstoves obsolete sono il quarto fattore di rischio per la salute globale dei paesi in via di sviluppo.

Per risolvere in gran parte il problema, si dovrebbero sostituire le vecchie e mal funzionanti stufe. Per questa causa, il Governo degli Stati Uniti ha offerto un contributo di 50 milioni di dollari, mentre in India il Governo nel 2009 ha stanziato dei fondi per consegnare stufe di ultima generazione a circa 160 milioni di famiglie. Nel 2010 l'iniziativa è stata sostenuta anche dalla “X Prize Foundation” e dall' “Indian Institute of Technology” di Delhi per creare a livello mondiale una forte azione di promozione. Le nuove cookstoves rispetto a quelle oramai antiquate, riducono le emissioni di ben 80%, utilizzando il 60% in meno di carburante e riducendo il tempo di cottura del 50.

Da non sottovalutare che l’efficienza delle stufe porta a ridurre un lavoro enorme fatto prevalentemente da donne e bambini nella raccolta della legna da ardere con grandi rischi per l’incolumità nelle varie aree di conflitto.





Fonte: (Sierra Club India)


giovedì 14 ottobre 2010

Blog Action Day 2010 Water


Il 4 novembre 2009, ho inaugurato questo blog con il Blog Action 2009 che si interessava del cambiamento climatico. Quest’anno mi fa piacere aderire nuovamente come blogger per una nuova iniziativa. Il Blog Action Day è un evento a livello globale in cui tutti i blogger del pianeta trattano un argomento a carattere sociale. Nel 2008 il tema era la povertà, nel 2009 i cambiamenti climatici e quest’anno il 15 ottobre 2010, si parlerà di un bene preziosissimo per tutti : l’acqua.

Questa estate, le Nazioni Unite hanno dichiarato l'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienici un diritto umano, nonostante l'obiezione da parte degli Stati Uniti. Oggi quasi un miliardo di persone non ha accesso di base ad acqua potabile sicura.

Ogni settimana quasi 38.000 bambini sotto i 5 anni muoiono a causa dell'acqua non potabile e la mancanza di condizioni di vita adeguate.

Non solo l'inquinamento è dannoso per l'ambiente, ma è anche costoso! Morti e malattie causate dalle acque costiere inquinate costa all'economia globale $ 12.8 miliardi.

Oggi il 40% dei fiumi e il 46% dei laghi d'America sono troppo inquinati per la pesca, il nuoto, o la vita acquatica. Questo non è sorprendente considerando il fatto che 1,2 miliardi di litri di liquami non trattati, l'acqua piovana, e rifiuti industriali vengono scaricati nelle acque degli Stati Uniti ogni anno.

Per esempio sono necessari 75 litri di acqua per fare un bicchiere di birra e servono 23 litri di acqua per produrre un solo hamburger. I 23 litri coprono l’intero processo: dal nutrire la mucca sino alla cottura della carne. E solo per un singolo pasto.

Gli analisti politici attribuiscono, almeno in parte, al conflitto in Darfur la mancanza di accesso all'acqua. Infatti, un rapporto commissionato dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite ha rilevato che nel 21 ° secolo, la scarsità d'acqua diventerà una delle principali cause di conflitto in Africa.

Anche se le persone negli Stati Uniti hanno accesso ad acqua pulita dai loro rubinetti, bevono una media di 200 bottiglie di acqua per persona ogni anno. Oltre 17 milioni di barili di petrolio sono necessari per la fabbricazione di quelle bottiglie d'acqua, l'86 per cento delle quali non saranno mai riciclate.

La carenza d'acqua in Africa ha portato ad una concorrenza sfrenata non solo tra gli agricoltori, ma anche con gli animali, tra cui gli elefanti. Gli elefanti alla ricerca d'acqua si avvicinano alle fattorie, distruggendo spesso le colture, danneggiando serbatoi, pompe a mano e pozzi, portando a loro volta i contadini a ricorrere alla violenza, al fine di proteggere le loro coltivazioni e fonti d'acqua.

Inoltre ricordati che la T-shirt di cotone che stai indossando ha utilizzato 400 galloni di acqua per essere prodotta.

Fonte: (BlogActionDay)

martedì 12 ottobre 2010

Fiumi malati nel mondo

Circa cinque miliardi di persone vivono vicino a corsi d’acqua contaminati; tra questi si possono annoverare addirittura tre miliardi e mezzo nella situazione di grave approvvigionamento di acqua pulita. Moltissimi sono i fiumi nei diversi continenti seriamente compromessi da inquinamento di vario genere, ad eccezione, ancora per il momento, del continente africano e i corsi d’acqua delle regioni artiche e siberiane.

Oltre ai dati che sono pervenuti dal rapporto mondiale sullo stato dei fiumi e pubblicato sulla rivista “Nature”, sono state stilate, da vari studiosi, delle classifiche sui fiumi più inquinati al mondo. Evidenzio una di queste graduatorie che incomincia con:

Citarum river, Indonesia. Il fiume Citarum si trova a West Java, in Indonesia. Purtroppo il fiume è coperto completamente da immondizie anche se resta l’unica fonte di approvvigionamento d’acqua per l’agricoltura che per uso personale. Nel dicembre 2008 la Banca Asiatica per lo Sviluppo ha approvato un prestito di 500 milioni dollari per pulirlo, ma sicuramente ci vorranno anni per recuperare la tragica situazione.

Yamuna river, India. Il fiume Yamuna, affluente del Gange, è uno dei fiumi più inquinati del mondo, in quanto oggetto di sversamento del 58% dei rifiuti dalla capitale indiana Nuova Delhi.

Buriganga river, Bangladesh. Il Buriganga è il principale fiume che scorre accanto alla città di Dhaka, capitale del Bangladesh. Il fiume è praticamente morto da un punto di vista biologico, sott’acqua sono depositati tonnellate di rifiuti umani.

Lanzhou, Cina. Il Fiume Giallo è il secondo fiume più lungo della Cina ed è la rete idrica per milioni di persone nel nord del Paese. Ma il fiume è fortemente inquinato a causa della contaminazione industriale, dovuta agli scarichi di petrolio.

Marilao river, Filippine. Involucri di plastica, ciabatte di gomma, tronchi di banana e spesso carcasse di animali, sono solo alcune delle cose che si possono veder galleggiare nel fiume Marilao. Le acque contengono sostanze chimiche tossiche come il cromo, il cadmio, il rame e l’arsenico, che rendono l’acqua molto pericolosa. Nonostante le campagne da parte del governo locale di ingiungere ammende, le famiglie continuano a gettare i loro rifiuti nel fiume e le fabbriche a liberare i propri reflui, contaminando costantemente le acque.

Gange, India. Anche il Gange, il fiume sacro per gli Indù, è inquinato. Si stima che circa 2 milioni di persone ogni giorno facciano il rituale bagno nel fiume, pur essendo a rischio a causa di rifiuti chimici, acque reflue e cadaveri galleggianti!

Songhua river, Cina. Il Songhua è un fiume nel nord-est della Cina, il più grande affluente del fiume Heilong. Nel novembre 2005, è stato contaminato anche dal benzene.

Mississipi river, Stati Uniti d’America. Il fiume Mississippi è una grande risorsa economica e naturale nel cuore degli Stati Uniti; drena circa il 40% degli stati continentali, compresi i suoi terreni agricoli e trasporta 1,5 milioni di tonnellate di inquinamento d’azoto nel Golfo del Messico ogni anno.

Fiume Sarno, Italia. Il fiume più inquinato d’Europa è il Sarno, un fiume che attraversa Pompei, a sud della città di Napoli.. La situazione è aggravata dai grandi scarichi di rifiuti non trattati, sia agricoli che industriali, riversati nel fiume.

King river, Australia. E’ probabilmente il fiume più inquinato d’Australia, e soffre di gravi disturbi relativi alle operazioni di estrazione. Anche in Australia, dunque, l’uomo è intervenuto per distruggere la natura.


Fonte: (Viaggi.tuttogratis)

venerdì 8 ottobre 2010

10.10.10


Unitevi a noi il 10.10.10 per un evento senza precedenti.

Il 10 ottobre 2010 (10.10.10), in tutto il pianeta, documentaristi, studenti e cittadini ispirati registreranno un'esperienza umana della durata di 24 ore per contribuire con la loro voce a un grande evento partecipativo mediatico della storia.

Fondata nel 2008, ONE DAY ON EARTH , sta continuando la propria attività anche con una comunità online, che condivide archivi e film. Verrà creata una vetrina di straordinarie situazioni, come i conflitti, le tragedie e i trionfi che si verificano in un giorno. Vi invitiamo ad unirti alla nostra comunità internazionale di migliaia di registi, centinaia di scuole e decine di organizzazioni non profit, e contribuire a quest'unico mosaico globale. Attraverso il Day One su piattaforma terrestre, stabiliremo una comunità che non solo guarda, ma partecipa.


Fonte: (One day on earth)

domenica 26 settembre 2010

Un progetto bizzarro


Iniziativa senza dubbio bizzarra quella di Eduardo Gold, un “inventore” peruviano che ha proposto e messo in pratica l’imbiancatura di un ghiacciaio oramai sciolto.

La Banca Mondiale ha dato per questo progetto 200.000 dollari per intervenire sul Sombrero Picco Chalon a circa 4.756 metri di altitudine.

Il signor Gold ha pensato che dipingere di colore bianco il ghiacciaio oramai scomparso da qualche decennio, con pitture contenenti ingredienti tutti eco-sostenibili, per poter sfruttare, aumentandolo, l’effetto albedo, che potrebbe ridurre la temperatura di qualche grado, in modo da ricreare quel micro clima locale , esistente anni addietro.

Una squadra di operai ha già imbiancato una piccola zona, ma si è organizzata per completare il progetto complessivo di 70 ettari.

I pittori non usano pennelli, ma brocche per spruzzare la pittura fatta da : calce, uova industriali e acqua, una miscela conosciuta in Perù già ai tempi coloniali.

Il progetto ha creato molte discussioni in vari ambiti. Per certe persone, come ad esempio il Ministro dell’Ambiente, il denaro speso in questa maniera non porta a risolvere minimamente il problema climatico nella zona.

Ritiene invece che ci siano programmi molto più interessanti da dover attuare per ottenere dei risultati concreti.

Comunque il Ministero Principale per i cambiamenti climatici peruviano, ha dato il via libera all’idea del signor Gold.

Vedremo in seguito se questa bizzarra tecnica produrrà qualche risultato positivo.

Voglio ricordare che in Perù c’è il 70 per cento dei ghiacciai tropicali del mondo e secondo un rapporto della Banca Mondiale, oltre il 22 per cento si sono sciolti negli ultimi 30 anni.

Se non si attueranno dei programmi validi, atti a mitigare i cambiamenti climatici, entro 20 anni i ghiacciai potrebbero scomparire del tutto, creando enormi problemi di approvvigionamento idrico al Perù.


Fonte: (The Dirt)

lunedì 20 settembre 2010

Produzione di caffè a rischio


La coltivazione del caffè, che si trovi in Africa o in Sudamerica o in altre parti del globo, è sempre stata sensibile al clima per (temperatura e piovosità), ma nel 2003 si è riscontrato l’arrivo in massa di un piccolo insetto (piralide del caffè) che, complice il riscaldamento ambientale, si è insediato causando grossi problemi ai coltivatori.

Il coleottero chiamato in America Latina “broca”, ovvero “il trapano”, si comporta come un alesatore che perfora la bacca del caffè per riporvi le uova all’interno, danneggiandola irrimediabilmente.

Ogni femmina può deporre fino a 200 uova e in base alle condizioni climatiche, la piralide può riprodursi da 1 a 7 volte l’anno.

I danni causati sono ingentissimi e, anche se il caffè non ha l’importanza vitale del grano, gli affari interessano comunque circa una settantina di paesi al mondo con un mercato di 90 miliardi di dollari l’anno.

Il mutamento climatico che ha colpito le zone interessate alla coltivazione, ha portato ad un aumento della temperatura che risulta ottimale per lo sviluppo del coleottero. L’incremento dell’abbondanza di questo piccolo invertebrato ha costretto una parte degli agricoltori colombiani a spostare i loro appezzamenti, poiché dalle ricerche effettuate dal “Centro di Ricerca Nazionale sul caffè” di Manizales in Colombia, è risultato che per l’aumento di 1°C, necessita uno spostamento delle coltivazioni di 550 metri di altitudine.

Il coleottero piralide ha bisogno di una temperatura media 20°C per sopravvivere e per riprodursi. Gli esperti hanno potuto riscontrare che, ogni volta che la temperatura aumenta di 0,05 gradi centigradi, le infezioni delle piante di caffè aumentano dell’8,5% .

Chi non ha spostato la produzione in altitudine ha cercato di contenere la temperatura nelle colture, piantando una grande quantità di alberi atti a generare l’ombra.

Questa soluzione non è tra le più rapide ma assicura un abbassamento dai 2 ai 4 gradi centigradi sulle foglie della pianta di caffè.

Oltre a tutti questi provvedimenti si è cercato di eliminare il problema utilizzando sostanziose quantità di pesticidi; purtroppo non si è riusciti a fare altro che ridurre il numero di cicli riproduttivi della piralide.


Fonte: (Treehugger)

lunedì 13 settembre 2010

Pesca aperta dopo la tragedia


Ho sinceramente dei seri dubbi sulla scelta della NOAA (National Oceanic and Atmosperich Administration) d’accordo con la FDA (Food and Drug Administration) e gli Stati del Golfo, di riaprire il 12 agosto 2010 la pesca commerciale e da diporto per una grandezza di 5144 miglia quadrate, vicino alla zona terribilmente colpita dalla catastrofe della piattaforma petrolifera BP.

Dal 3 luglio la zona è stata controllata sorvolandola dalla United States Coast Guard che assicura che non ci sono tracce di olio in mare.

Tra le 153 specie di pesci pescati tra i quali: cernie, dentici, tonni e mahi mahi, la NOAA afferma che dopo l’effettuazione di severe analisi chimiche, i risultati confermano che la preoccupazione non deve esserci da parte dei consumatori.

L’area di pesca dista circa 115 miglia a nord-est del pozzo BP.

Commissari ed esperti incaricati dai Ministeri interessati, affermano che l’importanza ittica nella zona sia d’importanza notevole per la popolazione che fino al giorno della disgrazia, viveva di pesca e allevamento di frutti di mare.

Spero che tutto questo non sia un’avventata mossa, frutto di pressioni politiche e dalle associazioni delle categorie interessate, per problemi di natura economica.

La zona, assicura la NOAA in stretto contatto con la Food and Drug Admistration e con gli Stati del Golfo, sarà costantemente monitorata per garantire al consumatore un pescato sicuro.

Fonte: (The fishsite)

martedì 7 settembre 2010

Danni enormi alle foreste pluviali


Parte da Greenpeace l’accusa diretta al Gruppo cartario indonesiano Asia Pulp & Paper (APP).
La Società cartaria viene sospettata di progettare una grandiosa espansione degli sfruttamenti delle foreste indonesiane, comportando enormi conseguenze (deforestazione).
Secondo il rapporto eseguito da Greenpeace, un documento interno della APP risalente al 2007, metterebbe in evidenza il progetto (mai accantonato) di aumentare le capacità produttive da 2,6 a 17,5 milioni di tonnellate l’anno.
Questo piano mette in risalto il fatto che la APP cerchi di impossessarsi di più di 1 milione di ettari di piantagioni vergini da sfruttare.
Nelle province di Sumatra di Riau e Jambi, la società cartaria ha richiesto 900.000 ettari di foreste: sembra che già la metà sia in possesso della potente azienda.

Oltre a Greenpeace anche il Times ha inviato in zona dei giornalisti che hanno rilevato che la cartiera Indah Kiat, di proprietà della stessa Asia Pulp & Paper, viene costantemente alimentata da legname proveniente dalle foreste pluviali.
Numerose sono le accuse che vengono fatte da Greenpeace ad una sfilza di grosse aziende di calibro mondiale che hanno rapporti commerciali da anni con la APP come : Wal-Mart, Hewlett Packard, Auchan, Carrefour, Tesco, KFC, Kraft, Nestlè,Unilever, Kimberly-Clarck.
Le conseguenze di questo sfruttamento eccessivo hanno portato l’Indonesia a salire al terzo posto di un podio sicuramente poco edificante, quello di produttore di gas ad effetto serra.

Attualmente risulta essere il secondo fornitore di olio di palma, componente di centinaia di migliaia di prodotti, molti dei quali sono presenti nelle nostre case e di uso quotidiano. Negli ultimi anni è spesso stato preso in considerazione anche come carburante alternativo al petrolio.
Basta leggere gli ingredienti di moltissime merendine e snack o anche del sapone; lo troverete anche lì !!
La grande domanda di questo prodotto ha fatto sì che le piantagioni di palme siano cresciute in maniera esagerata a discapito di zone protette, terreni agricoli e distruggendo l’ecosistema di molte specie protette come i rinoceronti, gli oranghi e la tigre di Sumatra oltre a mettere in serie difficoltà economiche le comunità forestali.

Posso concludere con una frase molto significativa di un attivista di Greenpeace del sud-est asiatico: “Alcuni marchi mondiali stanno mandando al macero il pianeta”.




Fonte: (Greenpeace)

sabato 28 agosto 2010

Nazioni Unite contro la desertificazione

Il 16 agosto 2010 è stata aperta dall’ONU la campagna decennale contro la progressiva desertificazione , che interessa ormai un quarto della superficie terrestre. Il fenomeno è causato dai costanti cambiamenti climatici in accoppiata ad una cattiva gestione delle risorse naturali.

La definizione di desertificazione attualmente accettata dalla comunità internazionale è quella proposta dalla UNCCD (United Nations Convention of Combat Desertification) che definisce la desertificazione come: «degrado delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali variazioni climatiche ed attività umane. L'espressione "degrado delle terre" designa la diminuzione o la scomparsa, nelle zone aride, semi-aride e subumide secche, della produttività biologica o economica e della complessità delle terre coltivate non irrigate, delle terre coltivate irrigate, dei percorsi, dei pascoli, delle foreste o delle superfici boschive in seguito all'utilizzazione delle terre o di uno o più fenomeni, segnatamente di fenomeni dovuti all'attività dell'uomo e ai suoi modi d'insediamento.»

Chissà come sarà il nostro pianeta Terra tra qualche decennio? Nessuno lo sa con matematica certezza anche se lo proiezioni non sono eclatanti; sembra che la Terra sia destinata a ridursi a un mezzo deserto. Il fenomeno della desertificazione è arrivato a minacciare il 44% delle terre coltivate, mentre il totale delle zone aride ha raggiunto i 3,6 miliardi di ettari (un quarto della superficie terrestre) dove abitano 2,1 miliardi di persone, cioè un essere umano su tre, un miliardo a rischio sopravvivenza.

Nell’ambito della Seconda Conferenza Internazionale sui Cambiamenti Climatici, Sostenibilità e Sviluppo nelle Regioni Semi-aride, in corso in Brasile a Fortaleza, è stata sviluppata la campagna decennale (2010-2020) per contrastare l’avanzata dei deserti. Tre i principali capi d’imputazione elencati dall’Agenzia delle Nazioni unite per l’Ambiente: pratiche agricole scorrette, mancata gestione delle risorse idriche e cambiamenti climatici. Non bisogna dimentica di sommare il notevole aumento della popolazione mondiale.

L’Onu (Unep) vuole sviluppare progetti comunitari concreti, come piantare alberi o insegnare agli allevatori di bestiame come gestire meglio la terra. L’Organizzazione delle Nazioni Unite inoltre vuole in concreto recuperare milioni di ettari fertili comperati in Africa da speculatori stranieri. Alle azioni locali, va però corrisposta un’operazione su scala globale.

Sopratutto drammatiche sono le notizie che provengono dall’Africa dalla zona del Sahel, inariditasi sui versanti Niger, Mali e Ciad. Nessuna parte del mondo comunque sta sfuggendo al problema desertificazione dall’America Latina alla Russia, fino agli Usa.

Lungo le coste del Mediterraneo, 30 milioni di ettari di terra sono già stati colpiti da desertificazione, fenomeno che mette a rischio la sopravvivenza di 6,5 milioni di persone. Un quinto dei territori in Spagna è soggetto a desertificazione e anche il Portogallo e la Grecia sono colpiti seriamente dal fenomeno del quale non è immune nemmeno la Francia meridionale. Il Marocco, la Libia e la Tunisia perdono ciascuno circa 1.000 Km2 di terre produttive ogni anno, in Egitto metà delle terre arabili irrigate sono meno produttive a causa della salinizzazione dell’acqua utilizzata.

Anche per l’Italia la minaccia è reale soprattutto per le nostre regioni del Sud. Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna sono fortemente a rischio; la situazione è particolarmente grave in quest’ultima, dove il pericolo desertificazione riguarda ben il 52% del territorio regionale, di cui l’11% già colpito. A forte rischio anche la Sicilia, le piccole isole e la Puglia; se a breve non verranno messi in pratica dei cambiamenti nelle politiche energetiche e ambientali, le previsioni già di per se non positive diverranno problemi concreti.

Fonte: (UNCCD)