domenica 29 novembre 2009

L'Unione Europea propone



In attesa del 7 dicembre si può dare una bella notizia rivolta ai “paesi poveri” che arrancano nel tentativo di adeguarsi alla lotta contro i cambiamenti climatici. L’Unione Europea per l’appunto il 7 dicembre a Copenhagen, in occasione del vertice Onu per i cambiamenti climatici, propone un aiuto di 100 miliardi di euro all’anno fino al 2020. L’impegno è rivolto a quei paesi come le Maldive che rischiano di sparire entro un secolo o di altri del sud-est asiatico che annualmente perdono pezzi di terreno .Queste aree del mondo non riescono a stare al passo dei paesi occidentali rispetto ad un adeguamento alle nuove tecnologie pulite perché la loro economia è basata ancora sul carbone.Tra i 27 paesi europei che dovrebbero in solido pagare i 100 miliardi annui, troviamo anche delle forti opposizioni all’interno della UE. Difatti paesi come la Polonia, la Lituania e altre nazioni dell’Europa dell’est che utilizzano il carbone come fonte produttiva dovrebbero pagare per adeguare gli altri che si trovano nella loro stessa situazione. Certamente questa è solo una proposta, e la stessa l’Italia prima di mettere mano al portafoglio vuole vedere come si comporteranno gli Stati Uniti e la Cina. Indubbiamente l’Unione Europea ha fatto una prima mossa anche se per adesso solamente teorica. Tra pochi giorni vedremo quali novità e certezze ci riserverà Copenhagen.


Fonte: (Ansa)



martedì 24 novembre 2009

Foresta boreale


Circa 1500 scienziati di tutto il mondo hanno firmato una richiesta rivolta a tutti i governi del mondo oltre al diretto interessato, cioè il Canada, per evidenziare che la foresta boreale è ancora oggi la piu' grande riserva di carbone del pianeta, con quasi 200 miliardi di tonnellate di carbone distribuite su oltre 550 milioni di ettari di foresta, e che sarebbe necessario preservare e proteggere almeno la metà del suo patrimonio forestale. Purtroppo ad oggi, solo meno del 10% di esso risulta protetta dalle conseguenze dello sviluppo industriale. I rappresentanti dell'industria forestale canadese si difendono sostenendo che il loro consumo annuo equivale solo allo 0,2% delle risorse forestali. Molte associazioni ambientaliste spiegano come lo sviluppo industriale nel settore forestale e lo sfruttamento dei fiumi per l’energia idroelettrica oltre ai giacimenti minerari stia praticamente distruggendo gran parte della foresta boreale. Lo sfruttamento delle risorse forestali canadesi costituisce un problema delicato, perché, se da un lato evidenti ragioni di protezione ambientale dovrebbero indurre una forte limitazione del loro sfruttamento industriale, dall'altro il settore forestale costituisce un pilastro importante per l'intera economia canadese. Voglio soffermarmi su uno dei più grandi disastri per le popolazioni locali secondo gli ambientalisti di tutto il mondo. Il Canada punta sempre più sull'estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose, «tar sands», nella regione dell'Alberta: attività tra le più devastanti per il clima e l'ambiente ( ricordo che il Canada ha già ben che superato i limiti concordati dal Protocollo di Kyoto che le emissioni di gas serra sono difatti aumentate del 26 % dal 1990 mentre dovevano ridursi del 6 %!!).
L'estrazione di sabbie bituminose, non fa altro che distruggere l'antica foresta boreale; si aprono miniere a cielo aperto su tutti i territori, l'acqua e il cibo sono contaminati, la vita selvatica locale è distrutta. Una foresta di conifere più grande dell'intera Gran Bretagna sta assumendo un aspetto orribile, con allucinanti miniere, impianti di trasformazione e laghi artificiali dove viene riversata acqua contaminata. Lo illustra il documentario «H2Oil» di Shannon Walsh, che sottolinea il gravissimo inquinamento idrico della zona, e l’aumento aumento esponenziale dei tumori.





Nella zona di Fort Murray c'è la nuova corsa all'oro nero e incuranti delle temperature invernali che arrivano a meno -40°, i lavoratori delle sabbie (oltre centomila) arrivano da ogni parte per percepire paghe elevatissime. Nello stato dell'Alberta potrà anche far freddo, ma uno studio della Co-Operative Bank britannica ha calcolato che, anche se tutte le altre emissioni di anidride carbonica fossero fermate, lo sfruttamento delle sabbie bituminose basterebbe a portare il mondo alla catastrofe climatica alzando la temperatura oltre i fatidici due gradi. In effetti estrarre un barile di petrolio da cumuli di sabbia, argilla e bitume produce da due a tre volte più CO2 rispetto all'estrazione di un barile di petrolio convenzionale anche perché consuma molta energia (oltre a molta acqua).
Con l’estrazione di petrolio dalle sabbie dell'Alberta , il Canada si pone come principale fornitore di petrolio degli Usa, dove invece diversi stati stanno pensando di bandirlo perché è così «carbon-intensive». Intanto il Canada, che finora ha utilizzato solo il 2 % delle proprie sabbie bituminose, ha già distrutto 520 chilometri quadrati di territorio. Bp e Shell sono fra le tante compagnie che si propongono di aumentare l'estrazione dalle sabbie dagli 1,3 milioni di barili al giorno attuali a 2,5 milioni nel 2015 e 6 milioni nel 2030. Il Canada ha 174 miliardi di barili di riserve di petrolio accertate e recuperabili in modo economico, seconde solo a quelle dell'Arabia Saudita. Ma i depositi totali di bitume sarebbero dell'ordine di 1,7 trilioni di barili. La corsa alle sabbie è un affare solo con i prezzi elevati del petrolio, oltre i 60 dollari. L'ultimo tentativo di ripulire l'immagine del Canada bituminoso , oltre a un piano congiunto nordamericano per le «zone selvatiche» , e un finanziamento di 2 miliardi di dollari canadesi per un impianto di «cattura e stoccaggio del carbonio». Shell ammette però che così si potranno abbattere le emissioni dalle sabbie solo del 15-20 %. Il Ministero dell'Energia dell'Alberta comunque con un comunicato afferma che le intenzioni sono di continuare a trattare le sabbie ancora cento anni e pensa in futuro di produrre 5 milioni di barili al giorno; spiegando che fino a che il mondo ha bisogno di energia non c'è alternativa alle sabbie bituminose.

Fonte:(The Nature Conservancy)

venerdì 20 novembre 2009

Nascita di un nuovo oceano !


Alcuni siti web scientifici ai primi di novembre 2009 hanno riesumato una notizia di anni fa, ma sempre molto interessante. Nel 2005, una gigantesca spaccatura ruppe il terreno del deserto in Etiopia. In un primo momento alcuni geologi pensavano che la frattura potesse rappresentare l’inizio della creazione di un nuovo oceano, come se il continente africano si fosse smembrato in due parti,.ma la tesi fu contrastata.

Ora, gli scienziati provenienti da diversi paesi hanno confermato che i processi vulcanici al lavoro sotto la Rift etiopica sono quasi identici a quelli in fondo degli oceani del mondo, e la spaccatura è con molta probabilità l’inizio di un nuovo mare.

Il nuovo studio, pubblicato sull’ultimo numero di Geophysical Research Letters, racconta che i confini altamente vulcanici lungo i bordi delle placche tettoniche oceaniche possono improvvisamente dissolversi in ampie sezioni, invece che a poco a poco come era stato precedentemente creduto.

Inoltre , potrebbero verificarsi improvvisi sismi di grandi dimensioni su terreni circostanti e rappresentare un pericolo molto grave per le popolazioni che vivono vicino ai margini della fenditura, dice Cindy Ebinger, professore di scienze della terra e dell’ambiente presso l’Università di Rochester e co-autore dello studio.

“Questo lavoro è un importante passo avanti nella nostra comprensione del Rift continentale, che può portare alla creazione di nuovi bacini oceanici”, dice Ken Macdonald, professore emerito presso il Dipartimento di Scienza della Terra presso l’Università della California, Santa Barbara,(non affiliato alla ricerca). Per la prima volta è stato dimostrato che l’attività su un segmento della Rift può innescare un episodio importante di iniezione di magma e di deformazione associati su un segmento vicino. Il punto fondamentale di questo studio è quello di sapere se ciò che sta accadendo in Etiopia è lo stesso fenomeno che sta avvenendo sul fondo dell’oceano, impossibile da controllare , dice Ebinger.



Atalay Ayele, professore presso l’Università di Addis Abeba, in Etiopia, ha raccolto una grande quantità di dati sismici riguardanti la frattura del 2005, che ha portato alla grande spaccatura di 20 metri di larghezza in pochi giorni. Unendo dati sismici provenienti dall’Etiopia, con quelli dell’Eritrea di Ghebrebrhan Ogubazghi, professore presso l’Istituto Eritrea of Technology, e dello Yemen con la collaborazione di Jamal Sholan del National Yemen Seismological Observatory Center, è stata creata una mappa. Ayele con la ricostruzione dei fatti ha dimostrato che la fessura non si è aperta dopo una serie di piccoli terremoti per un periodo prolungato di tempo, ma disgiunta lungo tutta la sua lunghezza di 35 miglia in pochi giorni. Un vulcano chiamato Dabbahu all’estremità settentrionale della Rift, ha prima eruttato e poi spinto il magma attraverso il centro della zona di frattura fino a “decomprimere” la spaccatura in entrambe le direzioni, dice Ebinger.

Dal 2005, Ebinger e i suoi colleghi hanno installato sismometri e misurato 12 eventi simili, anche se molto meno intensi .

“Sappiamo che le creste del fondo marino sono create da una simile intrusione di magma in una frattura, ma non eravamo a conoscenza che una lunghezza enorme del crinale si possa fratturare in una volta sola”, dice Ebinger. Le creste del fondo marino sono costituite da sezioni, ciascuna delle quali può essere lunga centinaia di miglia. A causa di questo studio, ora sappiamo che ognuno di questi segmenti si può spezzare in pochi giorni”.

Ebinger e i suoi colleghi stanno continuando a monitorare l’area in Etiopia per saperne di più su come il sistema di magma sotto la spaccatura si modifica e come la frattura continua a crescere.


Fonte: ( University of Rochester)


domenica 15 novembre 2009

Ottimo risultato eolico della Spagna




Questa recente notizia rappresenta una bella dimostrazione da parte della Spagna nel voler essere sempre di più una delle nazioni più ecologiche al mondo.
Pensando invece alla nostra bella penisola dove gli impianti eolici non sono per niente agevolati anzi ostacolati. Nella penisola iberica troviamo invece la Wind Power Association che annuncia che domenica 8 novembre 2009 si è battuto un record: l’energia eolica ha fornito il 50% della domanda per l’intero periodo di tempo, con un picco del 53%.
Il record è stato fissato tra le ore 3:00 e le 8:30. La richiesta di energia durante tale periodo di tempo varia da 19.700 MW a 21.700 MW. Questo nuovo record ha migliorato quello precedente che diceva 45,1% della domanda, non di tanto tempo prima, ma del giovedi precedente, appena 3 giorni prima. Il record precedente ancora era del 43% della domanda, che si è verificato sempre nel mese di novembre.
Per i primi nove giorni di novembre, l’energia eolica è stata la fonte principale di energia elettrica per la Spagna, generando 1.770.486 MWh. Il gas naturale è arrivato solo al secondo posto con 1.368.955 MWh, e l’energia nucleare è arrivata in terza posizione con 1.223.350 MWh. In media in un anno, l’energia eolica ha rappresentato la risposta all’11,8% della domanda elettrica spagnola nel 2008. Cifre che crescono di anno in anno e che sono destinate a non fermare questa scalata.
Una scalata indubbiamente pulita, visto che gli investimenti nei combustibili fossili sono stati quasi del tutto eliminati (il carbone non esiste quasi più ed il petrolio lo si sta lentamente abbandonando), mentre si investe maggiormente, oltre che nell’eolico, anche nel solare, visto che vicino Siviglia è stata ultimata da poco la centrale solare più grande al mondo. Non sarà di certo l’ultimo di questi investimenti, e ci chiediamo quando potremo vantarli anche nel nostro Paese.


Fonte: [Treehugger]

mercoledì 11 novembre 2009

Effetti del cambiamento climatico sulla pesca oceanica




L’University of British Columbia ha fatto uno studio denominato “Progetto Sea Around” che analizza e ipotizza l’insicurezza alimentare nelle zone tropicali del mondo dovuta ai cambiamenti climatici e che potrebbe creare trasformazioni importanti nel settore ittico.
I ricercatori della Princeton University sono della stessa idea, confermando le ricerche fatte dai colleghi della British Columbia. Ritengono infatti che la produttività della pesca oceanica subirà dei mutamenti importanti (studio pubblicato dalla rivista Global Change Biology). Un ulteriore studio condotto dal ricercatore William Cheung dell’Università di East Anglia in Gran Bretagna indica che le proiezioni riguardanti l’evoluzione climatica potranno portare ad un aumento potenziale dal 30 al 70% della pesca nelle regioni ad alta latitudine e una diminuzione fino al 40% ai tropici a discapito delle popolazioni locali in quanto per loro la pesca è fonte primaria di sostentamento. Il cambio climatico oltre ad impoverire il mare, secondo altre ricerche effettuate parla anche di un calo della produttività del terreno. Il gruppo di ricerca capitanato dal professor Daniel Pauly prevede che le regioni con una potenzialità di pesca di segno positivo nel 2055 saranno: Norvegia; Groenlandia, Alaska e la costa orientale della Russia. Le regioni invece con un sensibile segno negativo saranno: Indonesia, Stati Uniti (esclusi Alaska e Hawaii), Cile e Cina. Pur sempre con delle riserve ( molti fattori influenzano l’ecosistema) si parla di un aumento del pescato nelle regioni fredde, mentre le acque più calde potrebbero attirare nuove specie ittiche. La ricerca ha analizzato 1.066 specie che rappresentano circa il 70% del pescato nel mondo.

Fonte:(Scienzedaily)

venerdì 6 novembre 2009

350 numero importante

Sembra che il numero 350 sia diventato un numero importante da quando nel dicembre 2007 , l’ingegnere della NASA Hansen Jim lo pronunciò presso l'American Geophysical Union Meeting. Il ricercatore segnalò che durante l’estate appena trascorso i ghiacci dell’Artico si erano sciolti in maniera notevole e altri suoi colleghi confermavano la stessa situazione inerente ad altri ghiacciai in tutto il mondo.
Questo problema senza dubbio creava una acidificazione degli oceani ed altre problematiche. Il suo team pensava in base ai dati climatici in loro possesso di elaborare una linea rossa d’allarme per il pianeta.: quando le concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica fossero diventate superiori a 350 ppm(350 parti per milione).
Oltre questa soglia il riscaldamento globale diventerebbe pericolosamente fuori controllo. In realtà, oltre i 350 ppm non si potrebbe avere un pianeta simile a quello in cui la civiltà si è sviluppata e nel quale la vita sulla Terra si è adattata.

Ma la soglia dei 350 ppm, purtroppo l’abbiamo già oltrepassata per ben due volte e miracolosamente riportata indietro da un livello di 390 ppm. La conseguenza di queste due “sforature” è che infatti ora l’Artico si sta sciogliendo. Per abbassare il numero di 350,il primo compito è quello di smettere di immettere più carbonio nell’atmosfera.

Questo significa che bisogna molto rapidamente passare ad altre forme rinnovabili di energia oltre al sole e al vento.. Se riusciamo a smettere di riversare più carbonio nell’atmosfera, poi le foreste e gli oceani lentamente lo risucchieranno dall’aria e ritorneremo ai livelli di sicurezza (diminuire le emissioni entro il 2030).

Non ci resta che attendere i negoziati di Copenhagen (7 dicembre 2009) per rendersi conto cosa i potenti del mondo sono disposti a fare. Quasi ogni mese Hansen porta nuovi dati che dimostrano che la stima iniziale era esatta. All’inizio dell’estate una squadra inglese ha dimostrato che le barriere coralline non sopravviveranno all’acidificazione delle acque se si riuscirà a concentrare la CO2 al di sotto dei 350 ppm.

mercoledì 4 novembre 2009

Ambiente da salvare

Intendo inaugurare questo nuovo blog con un articolo già scritto in occasione dell’evento del 15 ottobre.
Blog Action Day nasce nel 2007 con l’intento si sensibilizzare i lettori dei blog sulle questioni importanti che il mondo deve o dovrà affrontare. La prima edizione vede più di 20.000 blogger confrontarsi su temi ambientali, e altrettanto numerosa è anche la partecipazione all’argomento dell’anno successivo, riguardante la povertà.

In qualità, quindi, di blogger vorrei proporvi un piccolo articolo riguardante il tema di quest’anno: il “Climate change”.

Un recente studio pubblicato sulla rivista medica “The Lancet“, dai più paragonato al famoso rapporto Stern (2006), analizza le possibili ripercussioni del cambiamento climatico sul nostro pianeta. Siccità ed alluvioni tenderanno ad essere sempre più frequenti mietendo numerose vittime. Numerosi problemi deriveranno soprattutto dalla disponibilità di cibo ed acqua, così come da un generale aumento di malattie infettive quali malaria, salmonella e dengue: la concomitanza di tali fattori comporterà migrazioni di massa sempre più frequenti, con conseguenti relativi disagi e tensioni politiche.

Proprio riguardo quest’ultima annotazione è necessario fare presente l’ultima “trovata” adottata dal governo indiano: i 4500 chilometri di confine con il Bangladesh sono stati interamente disseminati di filo spinato al fine di impedire, in futuro (probabilmente non troppo lontano!) migrazioni di massa attraverso il suo confine.

Le previsioni certamente non sono edificanti. Pensiamoci anche noi un po’ su…