domenica 26 settembre 2010

Un progetto bizzarro


Iniziativa senza dubbio bizzarra quella di Eduardo Gold, un “inventore” peruviano che ha proposto e messo in pratica l’imbiancatura di un ghiacciaio oramai sciolto.

La Banca Mondiale ha dato per questo progetto 200.000 dollari per intervenire sul Sombrero Picco Chalon a circa 4.756 metri di altitudine.

Il signor Gold ha pensato che dipingere di colore bianco il ghiacciaio oramai scomparso da qualche decennio, con pitture contenenti ingredienti tutti eco-sostenibili, per poter sfruttare, aumentandolo, l’effetto albedo, che potrebbe ridurre la temperatura di qualche grado, in modo da ricreare quel micro clima locale , esistente anni addietro.

Una squadra di operai ha già imbiancato una piccola zona, ma si è organizzata per completare il progetto complessivo di 70 ettari.

I pittori non usano pennelli, ma brocche per spruzzare la pittura fatta da : calce, uova industriali e acqua, una miscela conosciuta in Perù già ai tempi coloniali.

Il progetto ha creato molte discussioni in vari ambiti. Per certe persone, come ad esempio il Ministro dell’Ambiente, il denaro speso in questa maniera non porta a risolvere minimamente il problema climatico nella zona.

Ritiene invece che ci siano programmi molto più interessanti da dover attuare per ottenere dei risultati concreti.

Comunque il Ministero Principale per i cambiamenti climatici peruviano, ha dato il via libera all’idea del signor Gold.

Vedremo in seguito se questa bizzarra tecnica produrrà qualche risultato positivo.

Voglio ricordare che in Perù c’è il 70 per cento dei ghiacciai tropicali del mondo e secondo un rapporto della Banca Mondiale, oltre il 22 per cento si sono sciolti negli ultimi 30 anni.

Se non si attueranno dei programmi validi, atti a mitigare i cambiamenti climatici, entro 20 anni i ghiacciai potrebbero scomparire del tutto, creando enormi problemi di approvvigionamento idrico al Perù.


Fonte: (The Dirt)

lunedì 20 settembre 2010

Produzione di caffè a rischio


La coltivazione del caffè, che si trovi in Africa o in Sudamerica o in altre parti del globo, è sempre stata sensibile al clima per (temperatura e piovosità), ma nel 2003 si è riscontrato l’arrivo in massa di un piccolo insetto (piralide del caffè) che, complice il riscaldamento ambientale, si è insediato causando grossi problemi ai coltivatori.

Il coleottero chiamato in America Latina “broca”, ovvero “il trapano”, si comporta come un alesatore che perfora la bacca del caffè per riporvi le uova all’interno, danneggiandola irrimediabilmente.

Ogni femmina può deporre fino a 200 uova e in base alle condizioni climatiche, la piralide può riprodursi da 1 a 7 volte l’anno.

I danni causati sono ingentissimi e, anche se il caffè non ha l’importanza vitale del grano, gli affari interessano comunque circa una settantina di paesi al mondo con un mercato di 90 miliardi di dollari l’anno.

Il mutamento climatico che ha colpito le zone interessate alla coltivazione, ha portato ad un aumento della temperatura che risulta ottimale per lo sviluppo del coleottero. L’incremento dell’abbondanza di questo piccolo invertebrato ha costretto una parte degli agricoltori colombiani a spostare i loro appezzamenti, poiché dalle ricerche effettuate dal “Centro di Ricerca Nazionale sul caffè” di Manizales in Colombia, è risultato che per l’aumento di 1°C, necessita uno spostamento delle coltivazioni di 550 metri di altitudine.

Il coleottero piralide ha bisogno di una temperatura media 20°C per sopravvivere e per riprodursi. Gli esperti hanno potuto riscontrare che, ogni volta che la temperatura aumenta di 0,05 gradi centigradi, le infezioni delle piante di caffè aumentano dell’8,5% .

Chi non ha spostato la produzione in altitudine ha cercato di contenere la temperatura nelle colture, piantando una grande quantità di alberi atti a generare l’ombra.

Questa soluzione non è tra le più rapide ma assicura un abbassamento dai 2 ai 4 gradi centigradi sulle foglie della pianta di caffè.

Oltre a tutti questi provvedimenti si è cercato di eliminare il problema utilizzando sostanziose quantità di pesticidi; purtroppo non si è riusciti a fare altro che ridurre il numero di cicli riproduttivi della piralide.


Fonte: (Treehugger)

lunedì 13 settembre 2010

Pesca aperta dopo la tragedia


Ho sinceramente dei seri dubbi sulla scelta della NOAA (National Oceanic and Atmosperich Administration) d’accordo con la FDA (Food and Drug Administration) e gli Stati del Golfo, di riaprire il 12 agosto 2010 la pesca commerciale e da diporto per una grandezza di 5144 miglia quadrate, vicino alla zona terribilmente colpita dalla catastrofe della piattaforma petrolifera BP.

Dal 3 luglio la zona è stata controllata sorvolandola dalla United States Coast Guard che assicura che non ci sono tracce di olio in mare.

Tra le 153 specie di pesci pescati tra i quali: cernie, dentici, tonni e mahi mahi, la NOAA afferma che dopo l’effettuazione di severe analisi chimiche, i risultati confermano che la preoccupazione non deve esserci da parte dei consumatori.

L’area di pesca dista circa 115 miglia a nord-est del pozzo BP.

Commissari ed esperti incaricati dai Ministeri interessati, affermano che l’importanza ittica nella zona sia d’importanza notevole per la popolazione che fino al giorno della disgrazia, viveva di pesca e allevamento di frutti di mare.

Spero che tutto questo non sia un’avventata mossa, frutto di pressioni politiche e dalle associazioni delle categorie interessate, per problemi di natura economica.

La zona, assicura la NOAA in stretto contatto con la Food and Drug Admistration e con gli Stati del Golfo, sarà costantemente monitorata per garantire al consumatore un pescato sicuro.

Fonte: (The fishsite)

martedì 7 settembre 2010

Danni enormi alle foreste pluviali


Parte da Greenpeace l’accusa diretta al Gruppo cartario indonesiano Asia Pulp & Paper (APP).
La Società cartaria viene sospettata di progettare una grandiosa espansione degli sfruttamenti delle foreste indonesiane, comportando enormi conseguenze (deforestazione).
Secondo il rapporto eseguito da Greenpeace, un documento interno della APP risalente al 2007, metterebbe in evidenza il progetto (mai accantonato) di aumentare le capacità produttive da 2,6 a 17,5 milioni di tonnellate l’anno.
Questo piano mette in risalto il fatto che la APP cerchi di impossessarsi di più di 1 milione di ettari di piantagioni vergini da sfruttare.
Nelle province di Sumatra di Riau e Jambi, la società cartaria ha richiesto 900.000 ettari di foreste: sembra che già la metà sia in possesso della potente azienda.

Oltre a Greenpeace anche il Times ha inviato in zona dei giornalisti che hanno rilevato che la cartiera Indah Kiat, di proprietà della stessa Asia Pulp & Paper, viene costantemente alimentata da legname proveniente dalle foreste pluviali.
Numerose sono le accuse che vengono fatte da Greenpeace ad una sfilza di grosse aziende di calibro mondiale che hanno rapporti commerciali da anni con la APP come : Wal-Mart, Hewlett Packard, Auchan, Carrefour, Tesco, KFC, Kraft, Nestlè,Unilever, Kimberly-Clarck.
Le conseguenze di questo sfruttamento eccessivo hanno portato l’Indonesia a salire al terzo posto di un podio sicuramente poco edificante, quello di produttore di gas ad effetto serra.

Attualmente risulta essere il secondo fornitore di olio di palma, componente di centinaia di migliaia di prodotti, molti dei quali sono presenti nelle nostre case e di uso quotidiano. Negli ultimi anni è spesso stato preso in considerazione anche come carburante alternativo al petrolio.
Basta leggere gli ingredienti di moltissime merendine e snack o anche del sapone; lo troverete anche lì !!
La grande domanda di questo prodotto ha fatto sì che le piantagioni di palme siano cresciute in maniera esagerata a discapito di zone protette, terreni agricoli e distruggendo l’ecosistema di molte specie protette come i rinoceronti, gli oranghi e la tigre di Sumatra oltre a mettere in serie difficoltà economiche le comunità forestali.

Posso concludere con una frase molto significativa di un attivista di Greenpeace del sud-est asiatico: “Alcuni marchi mondiali stanno mandando al macero il pianeta”.




Fonte: (Greenpeace)