lunedì 28 dicembre 2009

Los Alamos e le scorie nucleari


Purtroppo i ricordi delle bombe sganciate a Hiroshima e Nagasaki affiorano dopo più di 60 anni. Dopo la tragedia c’era la necessità di stoccare i detriti letali. Si pensò di portarli in una zona desertica e isolata: scelsero un altipiano, non in Giappone, ma nel New Mexico dove crearono "Los Alamos National Laboratory". Dopo tutti questi anni qualcosa è cambiato e, tragicamente, ci si è accorti che i rifiuti interrati in montagna incominciano a scivolare verso le falde acquifere, sorgenti e ruscelli che portano l’acqua a 250.000 persone. Le montagne, molto fratturate, non sono riuscite più a contenere i rifiuti e questi pian piano sono arrivati a lambire il Rio Grande. Per adesso sembra che l’inquinamento del fiume non sia allarmante, ma pare che si siano trovati dei composti organici come il perclorato, un elemento importante del razzo propulsore e altri elementi radioattivi. Molte persone non sono convinte delle affermazioni fatte dai responsabili del laboratorio che spiegano che l’acqua che scende dalla montagna passando per i canyon e poi al Rio Grande è senza dubbio inquinata ma dicono si diluisca molto rapidamente o si sedimenti sul fondo, in maniera facilmente asportabile.

Il rapporto del Center for Disease Control and Prevention, afferma che c’è stata da parte loro una sottostima riguardante le sostanze conservate nello specifico il plutonio e il trizio dal 1940 ad oggi. Un'altra ammissione arriva dal Dipartimento dell’Ambiente che asserisce di aver rilevato in una falda acquifera che porta l’acqua potabile a Los Alamos e a White Rock del DEHP, un materiale che viene utilizzato per produrre esplosivi e plastiche. La sostanza trovata risulta presente in una percentuale 12 volte superiore al consentito e purtroppo risulta essere un materiale cancerogeno che colpisce i sistemi riproduttivi.

Un altro problema è derivato anche dalle acque utilizzate nell’arco degli anni per la costruzione delle bombe, rilasciando isotopi radioattivi nel Rio Grande. I costi per una bonifica della zona sono enormi, si parla di 13 miliardi di dollari ma gli eventuali lavori di bonifica con gli scavi e le asportazioni dei materiali alzerebbero enormi nubi di polveri tossiche che potrebbero innescare ulteriori problemi.

Fonte: ( Los Angeles Times)

sabato 19 dicembre 2009

L'enorme sviluppo cinese dato dallo sfruttamento del carbone

Non solo la Cina utilizza il carbone come elemento principale di sviluppo industriale ma il 75% della energia elettrica prodotta nel mondo utilizza la nera roccia per far funzionare caldaie a livello industriale che casalingo. Comunque il grande utilizzo di carbone in Cina rappresenta un grande aiuto ma anche un serio problema. Il prezzo che i cinesi devono pagare è enorme in termini di inquinamento ambientale e di morti nelle miniere (le statistiche parlano di un numero di circa 4000 all’anno) e di problemi di salute.

L’inquinamento atmosferico è tangibile in moltissime zone della Cina. Molte sono le città come Zhengzhou nella provincia di Henan dove, se non verranno effettuati dei cambiamenti radicali a livello di emissioni, i cittadini continueranno a non vedere neanche un giorno all’anno il cielo azzurro. Anche a Pechino dove comunque esiste il divieto di combustione del carbone, il problema dell’atmosfera molto spessa esiste in quanto qua ci pensa l’inquinamento delle automobili e le fabbriche. Questo enorme inquinamento che rappresenta circa il 15% dell’inquinamento atmosferico globale rappresenta anche un costo di 100 miliardi di dollari per curare i cittadini affetti da malattie respiratorie.

La Cina comunque è sempre stata una grande utilizzatrice di carbone; si trovano degli scritti di Marco Polo che narrano dell’ utilizzo di questa pietra nera in certe zone della Cina per scaldarsi. Attualmente la Cina estrae 2.5 miliardi di tonnellate di carbone l’anno che viene utilizzato dalle 541 centrali termoelettriche che producono 554.420 megawatt. La fame di energia della Cina non ha mai fine nonostante si apra una centrale elettrica alla settimana per poter far fronte al fabbisogno del miliardo abbondante di cinesi. Il grande paese orientale comunque cerca con dei progetti, che non si sa se porteranno a dei risultati soddisfacenti, di ridurre il 10% entro cinque anni eliminando i piccoli impianti a carbone più obsoleti per sostituirli con nuovi di maggiore grandezza ma logicamente più efficienti.

Il governo di Pechino inoltre ha lanciato un progetto pilota per affrontare il problema di catturare e immagazzinare il biossido di carbonio prodotto utilizzando il carbone come combustibile per la generazione di elettricità nelle proprie centrali elettriche. Il progetto partirà dalla città di Tianjin dove si costruirà un impianto a gassificazione integrata a ciclo combinato (IGCC) .L’iniziativa tende a recuperare tutti i gas inquinanti prima che il carbone sia utilizzato. L’impianto IGCC sarà in grado di produrre 250 megawatt di energia elettrica. Questa strategia si pensa potrà ridurre di molto le piogge acide dovute alle emissioni di biossido di zolfo addirittura del 90%, oltre alla riduzione del 75% della creazione di smog dovuta agli ossidi di azoto e per ultimo la cattura dell’80% delle emissioni di CO2 normalmente prodotti dalla combustione, puntando a stoccarla nei campi petroliferi esauriti entro il 2015. La società costituita per questo scopo è la GreenGen passata al primo posto al mondo come specializzata nella tecnologia del carbone pulito.

Fonte: (GenitronSviluppo)

domenica 13 dicembre 2009

Scioglimento dei ghiacciai in Cina e in Tibet


I ghiacciai della catena dell’Himalaya (considerati come il “Terzo polo”), che fungono da fonti di approvvigionamento d’acqua a delle popolazioni asiatiche si stanno sciogliendo a un ritmo allarmante. Secondo un recente rapporto conseguente ad uno studio di alcuni anni portato a termine e utilizzato dal China Geological Survey Institute, dimostra che i ghiacciai della zona di origine dello Yangtze, al centro del Qinghai-Tibet, nel sud-ovest della Cina, si sono ritirati 196 chilometri quadrati, nel corso degli ultimi 40 anni. I ghiacciai alle sorgenti dello Yangtze, il fiume più lungo della Cina, ora coprono 1.051 chilometri quadrati, rispetto ai 1.247 chilometri quadrati nel 1971, una perdita di quasi un miliardo di metri cubi di acqua, mentre la lingua del ghiacciaio Yuzhu, la più alta del Kunlun Mountains è sceso da 1.500 metri nello stesso periodo. I Paesi più industrializzati, non concentrando i loro sforzi sulla riduzione delle emissioni dei gas serra, sono senza dubbio il principale motivo di questa causa.
Il ritiro dei ghiacciai è diventato un problema per l'ambiente in Tibet, in particolare nella regione del Chang Tang del Tibet comportando gravi rischi per i mezzi di sussistenza ai nomadi locali e per l'economia locale. La conseguenza più comune è che i laghi sono in aumento a causa del ghiacciaio e tanti fiumi si ricostituiscono grazie all’enorme acqua a disposizione, allagando molto spesso alcuni dei pascoli migliori. Inoltre i ghiacciai più piccoli stanno scomparendo a causa dell’elevata velocità di fusione. Il rapido disgregarsi dei ghiacciai e le piogge a carattere alluvionale stanno mettendo a rischio la vita e le risorse della popolazione tibetana attente al dramma in atto nelle regioni himalayane. Nel territorio himalayano hanno origine i più importanti fiumi asiatici come la Yangtze, il Mekong e l’Indus che forniscono acqua a milioni di persone e svolgono un importante ruolo nella circolazione atmosferica globale, nell'irrigazione e nella produzione di energia elettrica. Senza dubbio lo scioglimento dei ghiacci e delle nevi dell'Himalaya, unitamente al cambiamento della natura avrà conseguenze disastrose per milioni di persone (per l'esattezza un miliardo e trecentomila) che vivono grazie all'acqua dei fiumi che hanno origine nella regione.
Un segno del cambiamento del clima è costituito dal mutamento del carattere e della frequenza delle piogge che, assieme alla diminuzione della neve e del ghiaccio, potrebbero mettere a rischio la reperibilità dell'acqua per l'irrigazione con conseguenze catastrofiche per l'agricoltura. Altri segnali avvertono che il clima è cambiato: per la prima volta, a 3.500 metri, sono apparse le zanzare e al campo base dell'Everest sono comparse le mosche, mai presenti a quell'altezza. I nomadi tibetani sono costretti a spostare le loro mandrie sui pascoli alpini con largo anticipo rispetto al passato e in vaste zone del loro territorio è in atto un processo di desertificazione. Ci sono circa 15.000 ghiacciai del Plateau tibetano , zone dove l’aria e le temperature gelide fino a 7200 metri facevano ritenere che il ghiaccio potesse essere esente dagli effetti del cambiamento climatico globale.

Fonte:( ScienceDaily )

mercoledì 9 dicembre 2009

Rimboschimento in Gran Bretagna




Ogni tanto arriva una bella notizia e questa volta parte dal Corpo Forestale di Sua Maestà la Regina.
Gli inglesi, a quanto pare, hanno semplicemente pensato che se ridurre la CO2 (anidride carbonica) in base ai dettami fissati dalle convenzioni internazionali è un cosa molto difficile, se non impossibile, allora la CO2 la faranno assorbire agli alberi. Hanno perciò dato via ad un programma di rimboschimento di 23 mila ettari di alberi. Per facilitare il calcolo mentale possiamo dire che 23 mila ettari rappresentano circa 30.000 campi di calcio. Si ricorda che è la prima volta che uno Stato pensa a risolvere il problema CO2 con questo provvedimento. Il capo del Comitato Scientifico del Corpo Forestale, Sir David Read “Professor of Plant Sciences at the University of Sheffield” è uno dei maggiori promotori di questa iniziativa che sfrutta il naturale coinvolgimento degli alberi per risolvere il problema CO2 senza effetti collaterali negativi. Inoltre, questo rimboschimento porterà altri vantaggi secondari ma molto importanti come: produzione di legname, biomassa per produrre energia e un ripopolamento di terreni oggi in disuso o disboscati e a rischio idrogeologico. Non si è ancora a conoscenza della tipologia di pianta che verrà collocata anche se si parla di una varietà autoctona pur non escludendo una scelta di alberi europei con caratteristiche migliori riguardo l’assorbimento della CO2. Se tutto questo verrà in realtà messo in pratica, il progetto dovrebbe concludersi nel 2050 con lo sviluppo degli alberi oramai completato. La copertura boschiva e forestale della Gran Bretagna, inoltre, passerebbe da una percentuale del 12% ad una del 16%. Una cifra sempre comunque inferiore a quella del resto dell’Europa, che vanta il 37% di territorio ricoperto da alberi.

Fonte: (100Ambiente)

sabato 5 dicembre 2009

Tsunami alle isole Samoa

Uno tsunami generato da un terremoto di 8 gradi della scala Richter ha provocato molte vittime nelle isole Samoa americane. Interi villaggi sono stati spazzati via dalla furia delle acque. Il sisma è avvenuto alle 19.48 ora italiana (le 6.48 di martedì 29 settembre 2009 ora locale) nell'Oceano Pacifico a circa 200 km a sud-ovest delle isole Samoa. Il centro del sisma è stato posizionato a 18 km di profondità e si tratta del sisma più forte al mondo dal 12 settembre 2007, quando avvenne un terremoto di 8,5 Richter a sud-ovest di Sumatra, in Indonesia.In quella tragica occasione il sisma spinse l’intera isola di Sumatra, a circa 100 metri a sud ovest. Quest’ultimo è stato il più forte sisma degli ultimi 40 anni e il quinto a partire dal 1900. Le aree che sono state colpite sono quelle vicine all’Oceano Indiano : India, Sri Lanka, Malesia, Bangladesh, Thailandia, Indonesia e Maldive. Gli tsunami generati per la maggior parte nella zona dell'Oceano Indiano si propagano verso le coste sud-ovest di Giava e Sumatra, perché la placca Indo-Australiana è in subduzione sotto la placca eurasiatica al suo margine orientale.

SUBDUZIONE: La zona dove è avvenuto il movimento tellurico è geologicamente molto complessa è posta al confine tra la placca pacifica e quella australiana in un area che in realtà si divide in una serie di microplacche che si muovono l'una rispetto alle altre. In generale si può dire che la placca pacifica subduce (sprofonda sotto) quella australiana. La placca pacifica si muove verso ovest a una velocità di 8,6 cm all'anno. Il confine scorre più o meno in direzione est-ovest, ma la zona dove c'è stata la scossa (l'epicentro preciso è stato localizzato a 15,56° Sud e 172,07° Ovest) fa da perno e la direzione del contatto tra le placche cambia e passa da nord-est verso sud-ovest. Dopo il terremoto la frattura si è estesa e si sono registrate scosse (la più forte delle quali di 5,9 gradi) a ovest della linea di subduzione a conferma del movimento verso la profondità della zolla pacifica. Uno tsunami, che a volte a torto viene definito come un maremoto, è una serie di grandi onde create quando terremoti sottomarini determinano un movimento improvviso del fondo marino. Il movimento del fondo marino genera un impulso improvviso che provoca uno spostamento della colonna d'acqua in senso verticale. Il risultato è un lungo treno di onde. Come l'onda si avvicina alle acque poco profonde, rallenta, ma l'energia dell'onda rimane costante. Questa azione induce l'onda ad aumentare in altezza, anche più di 30,5 metri (100 piedi) in alcuni casi. Mentre i terremoti possono essere devastanti, di particolare interesse per i residenti delle zone costiere sono i sisma generati da onde o spesso definito come lo tsunami, che significa "onda del porto". Le autorità parlano di almeno 10.000 persone uccise dopo il terremoto nella zona di Sumatra.

La storia racconta che anche in Italia e in mediterraneo:

Circa 8000 anni fa un gigantesco tsunami devastò il mediterraneo interessando le coste della Sicilia orientale, l'Italia meridionale, l'Albania, la Grecia, il Nord Africa dalla Tunisia all'Egitto, spingendosi sino alle coste del vicino oriente dalla Palestina, alla Siria ed al Libano. La causa fu lo sprofondamento in mare di una massa di 35 chilometri cubi di materiale, staccatosi dall'Etna, in seguito ad un sisma di eccezionale magnitudo. L'onda iniziale che si generò era alta più di 50 metri e raggiunse le propaggini estreme del Mediterraneo orientale in 3 o 4 ore, viaggiando alla velocità di diverse centinaia di chilometri orari. Tale sconvolgimento determinò la scomparsa improvvisa di numerosi insediamenti costieri di epoca neolitica, come è stato dimostrato dai ritrovamenti archeologici sulle coste di Israele. Lo studio che ha portato alla dimostrazione di questo evento cataclismico è stato condotto dall'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, con finanziamento del Dipartimento di Protezione Civile, nel 2006.
In epoca abbastanza recente varie fonti riferiscono di uno tsunami a seguito del terremoto della Val di Noto, del 1693, quando una gigantesca ondata devastò le coste orientali della Sicilia dopo che il mare si era ritirato di centinaia di metri. In questo caso l'epicentro del sisma si ritiene fosse situato sotto il fondo del mare, una trentina di km, al largo di Augusta. Il terremoto di Messina del 1908 innescò un maremoto di impressionante violenza che si riversò sulle zone costiere di tutto lo Stretto di Messina con ondate devastanti stimate, a seconda delle località della costa orientale della Sicilia, da 6 m a 12 m di altezza. Lo tsunami in questo caso provocò molte più vittime del terremoto. Un movimento dell'acqua di dimensioni più contenute rispetto ad uno tsunami si verificò nel dicembre 2002 nel Mar Tirreno. Seppur di piccole dimensioni, l'onda generata, alta alcuni metri, distrusse parte delle zone costiere abitate di Stromboli e causò danni e disagi alla navigazione.

Fonte:(Wikipedia) (New Scientist)

domenica 29 novembre 2009

L'Unione Europea propone



In attesa del 7 dicembre si può dare una bella notizia rivolta ai “paesi poveri” che arrancano nel tentativo di adeguarsi alla lotta contro i cambiamenti climatici. L’Unione Europea per l’appunto il 7 dicembre a Copenhagen, in occasione del vertice Onu per i cambiamenti climatici, propone un aiuto di 100 miliardi di euro all’anno fino al 2020. L’impegno è rivolto a quei paesi come le Maldive che rischiano di sparire entro un secolo o di altri del sud-est asiatico che annualmente perdono pezzi di terreno .Queste aree del mondo non riescono a stare al passo dei paesi occidentali rispetto ad un adeguamento alle nuove tecnologie pulite perché la loro economia è basata ancora sul carbone.Tra i 27 paesi europei che dovrebbero in solido pagare i 100 miliardi annui, troviamo anche delle forti opposizioni all’interno della UE. Difatti paesi come la Polonia, la Lituania e altre nazioni dell’Europa dell’est che utilizzano il carbone come fonte produttiva dovrebbero pagare per adeguare gli altri che si trovano nella loro stessa situazione. Certamente questa è solo una proposta, e la stessa l’Italia prima di mettere mano al portafoglio vuole vedere come si comporteranno gli Stati Uniti e la Cina. Indubbiamente l’Unione Europea ha fatto una prima mossa anche se per adesso solamente teorica. Tra pochi giorni vedremo quali novità e certezze ci riserverà Copenhagen.


Fonte: (Ansa)



martedì 24 novembre 2009

Foresta boreale


Circa 1500 scienziati di tutto il mondo hanno firmato una richiesta rivolta a tutti i governi del mondo oltre al diretto interessato, cioè il Canada, per evidenziare che la foresta boreale è ancora oggi la piu' grande riserva di carbone del pianeta, con quasi 200 miliardi di tonnellate di carbone distribuite su oltre 550 milioni di ettari di foresta, e che sarebbe necessario preservare e proteggere almeno la metà del suo patrimonio forestale. Purtroppo ad oggi, solo meno del 10% di esso risulta protetta dalle conseguenze dello sviluppo industriale. I rappresentanti dell'industria forestale canadese si difendono sostenendo che il loro consumo annuo equivale solo allo 0,2% delle risorse forestali. Molte associazioni ambientaliste spiegano come lo sviluppo industriale nel settore forestale e lo sfruttamento dei fiumi per l’energia idroelettrica oltre ai giacimenti minerari stia praticamente distruggendo gran parte della foresta boreale. Lo sfruttamento delle risorse forestali canadesi costituisce un problema delicato, perché, se da un lato evidenti ragioni di protezione ambientale dovrebbero indurre una forte limitazione del loro sfruttamento industriale, dall'altro il settore forestale costituisce un pilastro importante per l'intera economia canadese. Voglio soffermarmi su uno dei più grandi disastri per le popolazioni locali secondo gli ambientalisti di tutto il mondo. Il Canada punta sempre più sull'estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose, «tar sands», nella regione dell'Alberta: attività tra le più devastanti per il clima e l'ambiente ( ricordo che il Canada ha già ben che superato i limiti concordati dal Protocollo di Kyoto che le emissioni di gas serra sono difatti aumentate del 26 % dal 1990 mentre dovevano ridursi del 6 %!!).
L'estrazione di sabbie bituminose, non fa altro che distruggere l'antica foresta boreale; si aprono miniere a cielo aperto su tutti i territori, l'acqua e il cibo sono contaminati, la vita selvatica locale è distrutta. Una foresta di conifere più grande dell'intera Gran Bretagna sta assumendo un aspetto orribile, con allucinanti miniere, impianti di trasformazione e laghi artificiali dove viene riversata acqua contaminata. Lo illustra il documentario «H2Oil» di Shannon Walsh, che sottolinea il gravissimo inquinamento idrico della zona, e l’aumento aumento esponenziale dei tumori.





Nella zona di Fort Murray c'è la nuova corsa all'oro nero e incuranti delle temperature invernali che arrivano a meno -40°, i lavoratori delle sabbie (oltre centomila) arrivano da ogni parte per percepire paghe elevatissime. Nello stato dell'Alberta potrà anche far freddo, ma uno studio della Co-Operative Bank britannica ha calcolato che, anche se tutte le altre emissioni di anidride carbonica fossero fermate, lo sfruttamento delle sabbie bituminose basterebbe a portare il mondo alla catastrofe climatica alzando la temperatura oltre i fatidici due gradi. In effetti estrarre un barile di petrolio da cumuli di sabbia, argilla e bitume produce da due a tre volte più CO2 rispetto all'estrazione di un barile di petrolio convenzionale anche perché consuma molta energia (oltre a molta acqua).
Con l’estrazione di petrolio dalle sabbie dell'Alberta , il Canada si pone come principale fornitore di petrolio degli Usa, dove invece diversi stati stanno pensando di bandirlo perché è così «carbon-intensive». Intanto il Canada, che finora ha utilizzato solo il 2 % delle proprie sabbie bituminose, ha già distrutto 520 chilometri quadrati di territorio. Bp e Shell sono fra le tante compagnie che si propongono di aumentare l'estrazione dalle sabbie dagli 1,3 milioni di barili al giorno attuali a 2,5 milioni nel 2015 e 6 milioni nel 2030. Il Canada ha 174 miliardi di barili di riserve di petrolio accertate e recuperabili in modo economico, seconde solo a quelle dell'Arabia Saudita. Ma i depositi totali di bitume sarebbero dell'ordine di 1,7 trilioni di barili. La corsa alle sabbie è un affare solo con i prezzi elevati del petrolio, oltre i 60 dollari. L'ultimo tentativo di ripulire l'immagine del Canada bituminoso , oltre a un piano congiunto nordamericano per le «zone selvatiche» , e un finanziamento di 2 miliardi di dollari canadesi per un impianto di «cattura e stoccaggio del carbonio». Shell ammette però che così si potranno abbattere le emissioni dalle sabbie solo del 15-20 %. Il Ministero dell'Energia dell'Alberta comunque con un comunicato afferma che le intenzioni sono di continuare a trattare le sabbie ancora cento anni e pensa in futuro di produrre 5 milioni di barili al giorno; spiegando che fino a che il mondo ha bisogno di energia non c'è alternativa alle sabbie bituminose.

Fonte:(The Nature Conservancy)

venerdì 20 novembre 2009

Nascita di un nuovo oceano !


Alcuni siti web scientifici ai primi di novembre 2009 hanno riesumato una notizia di anni fa, ma sempre molto interessante. Nel 2005, una gigantesca spaccatura ruppe il terreno del deserto in Etiopia. In un primo momento alcuni geologi pensavano che la frattura potesse rappresentare l’inizio della creazione di un nuovo oceano, come se il continente africano si fosse smembrato in due parti,.ma la tesi fu contrastata.

Ora, gli scienziati provenienti da diversi paesi hanno confermato che i processi vulcanici al lavoro sotto la Rift etiopica sono quasi identici a quelli in fondo degli oceani del mondo, e la spaccatura è con molta probabilità l’inizio di un nuovo mare.

Il nuovo studio, pubblicato sull’ultimo numero di Geophysical Research Letters, racconta che i confini altamente vulcanici lungo i bordi delle placche tettoniche oceaniche possono improvvisamente dissolversi in ampie sezioni, invece che a poco a poco come era stato precedentemente creduto.

Inoltre , potrebbero verificarsi improvvisi sismi di grandi dimensioni su terreni circostanti e rappresentare un pericolo molto grave per le popolazioni che vivono vicino ai margini della fenditura, dice Cindy Ebinger, professore di scienze della terra e dell’ambiente presso l’Università di Rochester e co-autore dello studio.

“Questo lavoro è un importante passo avanti nella nostra comprensione del Rift continentale, che può portare alla creazione di nuovi bacini oceanici”, dice Ken Macdonald, professore emerito presso il Dipartimento di Scienza della Terra presso l’Università della California, Santa Barbara,(non affiliato alla ricerca). Per la prima volta è stato dimostrato che l’attività su un segmento della Rift può innescare un episodio importante di iniezione di magma e di deformazione associati su un segmento vicino. Il punto fondamentale di questo studio è quello di sapere se ciò che sta accadendo in Etiopia è lo stesso fenomeno che sta avvenendo sul fondo dell’oceano, impossibile da controllare , dice Ebinger.



Atalay Ayele, professore presso l’Università di Addis Abeba, in Etiopia, ha raccolto una grande quantità di dati sismici riguardanti la frattura del 2005, che ha portato alla grande spaccatura di 20 metri di larghezza in pochi giorni. Unendo dati sismici provenienti dall’Etiopia, con quelli dell’Eritrea di Ghebrebrhan Ogubazghi, professore presso l’Istituto Eritrea of Technology, e dello Yemen con la collaborazione di Jamal Sholan del National Yemen Seismological Observatory Center, è stata creata una mappa. Ayele con la ricostruzione dei fatti ha dimostrato che la fessura non si è aperta dopo una serie di piccoli terremoti per un periodo prolungato di tempo, ma disgiunta lungo tutta la sua lunghezza di 35 miglia in pochi giorni. Un vulcano chiamato Dabbahu all’estremità settentrionale della Rift, ha prima eruttato e poi spinto il magma attraverso il centro della zona di frattura fino a “decomprimere” la spaccatura in entrambe le direzioni, dice Ebinger.

Dal 2005, Ebinger e i suoi colleghi hanno installato sismometri e misurato 12 eventi simili, anche se molto meno intensi .

“Sappiamo che le creste del fondo marino sono create da una simile intrusione di magma in una frattura, ma non eravamo a conoscenza che una lunghezza enorme del crinale si possa fratturare in una volta sola”, dice Ebinger. Le creste del fondo marino sono costituite da sezioni, ciascuna delle quali può essere lunga centinaia di miglia. A causa di questo studio, ora sappiamo che ognuno di questi segmenti si può spezzare in pochi giorni”.

Ebinger e i suoi colleghi stanno continuando a monitorare l’area in Etiopia per saperne di più su come il sistema di magma sotto la spaccatura si modifica e come la frattura continua a crescere.


Fonte: ( University of Rochester)


domenica 15 novembre 2009

Ottimo risultato eolico della Spagna




Questa recente notizia rappresenta una bella dimostrazione da parte della Spagna nel voler essere sempre di più una delle nazioni più ecologiche al mondo.
Pensando invece alla nostra bella penisola dove gli impianti eolici non sono per niente agevolati anzi ostacolati. Nella penisola iberica troviamo invece la Wind Power Association che annuncia che domenica 8 novembre 2009 si è battuto un record: l’energia eolica ha fornito il 50% della domanda per l’intero periodo di tempo, con un picco del 53%.
Il record è stato fissato tra le ore 3:00 e le 8:30. La richiesta di energia durante tale periodo di tempo varia da 19.700 MW a 21.700 MW. Questo nuovo record ha migliorato quello precedente che diceva 45,1% della domanda, non di tanto tempo prima, ma del giovedi precedente, appena 3 giorni prima. Il record precedente ancora era del 43% della domanda, che si è verificato sempre nel mese di novembre.
Per i primi nove giorni di novembre, l’energia eolica è stata la fonte principale di energia elettrica per la Spagna, generando 1.770.486 MWh. Il gas naturale è arrivato solo al secondo posto con 1.368.955 MWh, e l’energia nucleare è arrivata in terza posizione con 1.223.350 MWh. In media in un anno, l’energia eolica ha rappresentato la risposta all’11,8% della domanda elettrica spagnola nel 2008. Cifre che crescono di anno in anno e che sono destinate a non fermare questa scalata.
Una scalata indubbiamente pulita, visto che gli investimenti nei combustibili fossili sono stati quasi del tutto eliminati (il carbone non esiste quasi più ed il petrolio lo si sta lentamente abbandonando), mentre si investe maggiormente, oltre che nell’eolico, anche nel solare, visto che vicino Siviglia è stata ultimata da poco la centrale solare più grande al mondo. Non sarà di certo l’ultimo di questi investimenti, e ci chiediamo quando potremo vantarli anche nel nostro Paese.


Fonte: [Treehugger]

mercoledì 11 novembre 2009

Effetti del cambiamento climatico sulla pesca oceanica




L’University of British Columbia ha fatto uno studio denominato “Progetto Sea Around” che analizza e ipotizza l’insicurezza alimentare nelle zone tropicali del mondo dovuta ai cambiamenti climatici e che potrebbe creare trasformazioni importanti nel settore ittico.
I ricercatori della Princeton University sono della stessa idea, confermando le ricerche fatte dai colleghi della British Columbia. Ritengono infatti che la produttività della pesca oceanica subirà dei mutamenti importanti (studio pubblicato dalla rivista Global Change Biology). Un ulteriore studio condotto dal ricercatore William Cheung dell’Università di East Anglia in Gran Bretagna indica che le proiezioni riguardanti l’evoluzione climatica potranno portare ad un aumento potenziale dal 30 al 70% della pesca nelle regioni ad alta latitudine e una diminuzione fino al 40% ai tropici a discapito delle popolazioni locali in quanto per loro la pesca è fonte primaria di sostentamento. Il cambio climatico oltre ad impoverire il mare, secondo altre ricerche effettuate parla anche di un calo della produttività del terreno. Il gruppo di ricerca capitanato dal professor Daniel Pauly prevede che le regioni con una potenzialità di pesca di segno positivo nel 2055 saranno: Norvegia; Groenlandia, Alaska e la costa orientale della Russia. Le regioni invece con un sensibile segno negativo saranno: Indonesia, Stati Uniti (esclusi Alaska e Hawaii), Cile e Cina. Pur sempre con delle riserve ( molti fattori influenzano l’ecosistema) si parla di un aumento del pescato nelle regioni fredde, mentre le acque più calde potrebbero attirare nuove specie ittiche. La ricerca ha analizzato 1.066 specie che rappresentano circa il 70% del pescato nel mondo.

Fonte:(Scienzedaily)

venerdì 6 novembre 2009

350 numero importante

Sembra che il numero 350 sia diventato un numero importante da quando nel dicembre 2007 , l’ingegnere della NASA Hansen Jim lo pronunciò presso l'American Geophysical Union Meeting. Il ricercatore segnalò che durante l’estate appena trascorso i ghiacci dell’Artico si erano sciolti in maniera notevole e altri suoi colleghi confermavano la stessa situazione inerente ad altri ghiacciai in tutto il mondo.
Questo problema senza dubbio creava una acidificazione degli oceani ed altre problematiche. Il suo team pensava in base ai dati climatici in loro possesso di elaborare una linea rossa d’allarme per il pianeta.: quando le concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica fossero diventate superiori a 350 ppm(350 parti per milione).
Oltre questa soglia il riscaldamento globale diventerebbe pericolosamente fuori controllo. In realtà, oltre i 350 ppm non si potrebbe avere un pianeta simile a quello in cui la civiltà si è sviluppata e nel quale la vita sulla Terra si è adattata.

Ma la soglia dei 350 ppm, purtroppo l’abbiamo già oltrepassata per ben due volte e miracolosamente riportata indietro da un livello di 390 ppm. La conseguenza di queste due “sforature” è che infatti ora l’Artico si sta sciogliendo. Per abbassare il numero di 350,il primo compito è quello di smettere di immettere più carbonio nell’atmosfera.

Questo significa che bisogna molto rapidamente passare ad altre forme rinnovabili di energia oltre al sole e al vento.. Se riusciamo a smettere di riversare più carbonio nell’atmosfera, poi le foreste e gli oceani lentamente lo risucchieranno dall’aria e ritorneremo ai livelli di sicurezza (diminuire le emissioni entro il 2030).

Non ci resta che attendere i negoziati di Copenhagen (7 dicembre 2009) per rendersi conto cosa i potenti del mondo sono disposti a fare. Quasi ogni mese Hansen porta nuovi dati che dimostrano che la stima iniziale era esatta. All’inizio dell’estate una squadra inglese ha dimostrato che le barriere coralline non sopravviveranno all’acidificazione delle acque se si riuscirà a concentrare la CO2 al di sotto dei 350 ppm.

mercoledì 4 novembre 2009

Ambiente da salvare

Intendo inaugurare questo nuovo blog con un articolo già scritto in occasione dell’evento del 15 ottobre.
Blog Action Day nasce nel 2007 con l’intento si sensibilizzare i lettori dei blog sulle questioni importanti che il mondo deve o dovrà affrontare. La prima edizione vede più di 20.000 blogger confrontarsi su temi ambientali, e altrettanto numerosa è anche la partecipazione all’argomento dell’anno successivo, riguardante la povertà.

In qualità, quindi, di blogger vorrei proporvi un piccolo articolo riguardante il tema di quest’anno: il “Climate change”.

Un recente studio pubblicato sulla rivista medica “The Lancet“, dai più paragonato al famoso rapporto Stern (2006), analizza le possibili ripercussioni del cambiamento climatico sul nostro pianeta. Siccità ed alluvioni tenderanno ad essere sempre più frequenti mietendo numerose vittime. Numerosi problemi deriveranno soprattutto dalla disponibilità di cibo ed acqua, così come da un generale aumento di malattie infettive quali malaria, salmonella e dengue: la concomitanza di tali fattori comporterà migrazioni di massa sempre più frequenti, con conseguenti relativi disagi e tensioni politiche.

Proprio riguardo quest’ultima annotazione è necessario fare presente l’ultima “trovata” adottata dal governo indiano: i 4500 chilometri di confine con il Bangladesh sono stati interamente disseminati di filo spinato al fine di impedire, in futuro (probabilmente non troppo lontano!) migrazioni di massa attraverso il suo confine.

Le previsioni certamente non sono edificanti. Pensiamoci anche noi un po’ su…