domenica 3 aprile 2011

Nucleare in Turchia


Con ansia cerchiamo di aggiornarci con l’aiuto di internet o tramite la televisione della situazione caotica e poco chiara dei reattori giapponesi di Fukushima.

Le ultime notizie, mentre sto scrivendo, non sono rosee ma drammatiche.

Purtroppo si viene a sapere che pur non essendo ancora minimamente risolta la tragedia giapponese, la Turchia sta pensando di costruire una centrale nucleare a casa propria.

La concessione per la costruzione sembra sia stata data già nel lontano 1976, ma il tragico è che l’ubicazione della stessa dovrebbe essere presso la città di Akkuyu, proprio dove si trova la faglia attiva Ecemis, dove le placche tettoniche africane e euroasiatiche si scontrano. Certamente una zona ad alto rischio sismico.

Il Governo di Cipro, isola situata al largo della costa meridionale della Turchia, ha annunciato all'inizio di questa settimana, che avrebbe chiesto all'Unione europea di fermare la Turchia nel programma di costruzione dell'impianto di Akkuyu per motivi di rischio sismico, dopo la conferenza stampa tenuta il 12 marzo, dal ministro dell’Ambiente turco che ha affermato che la costruzione in Akkuyu potrebbe iniziare nei prossimi tre mesi.

Si sono rivelati un fallimento i molti tentativi fatti dal Governo turco di mettere all'asta la gara per la costruzione dell’impianto di Akkuyu durante gli anni '80 e '90.

Nel 2000 il Governo sembrava dover annunciare la società che aveva vinto la gara, ma il primo ministro dell’epoca, Ecevit, annullò il progetto per la nona volta sotto la pressione dell’opinione pubblica e della tesoreria, che rifiutava i finanziamenti perché ritenuti troppo rischiosi.

Nel 2009 quando per l’ennesima volta la Turchia metteva all’asta il sito adibito a progetto nucleare, solamente l'azienda statale russa Rosatom, si proclamava veramente interessata.

L'impianto Akkuyu sarebbe certamente per la Turchia un modo per liberarsi dalla dipendenza energetica da gas naturale e da carbone, comperati principalmente dalla Russia, perché fornirebbe 4.800 megawatt di elettricità.

Oggi l'azienda statale russa Rosatom si trova in una situazione di primo piano nel decidere molte cose tra le quali anche la scelta del tipo di reattore.

La scelta sembra si sia orientata verso il VVER 1200, reattore mai ultimato prima d’ora, ma in costruzione attualmente presso due siti in Russia. Il VVER 1200 rappresenta la tecnologia di terza generazione ed è generalmente considerato il più sicuro di tutta la flotta mondiale di reattori.
Vedremo se le elezioni nazionali che si terranno in Turchia questa estate potrebbe dissuadere il partito al Governo dal tentativo di continuare con il progetto, dato che l'energia nucleare è molto impopolare in tutto il Paese.

In Turchia la popolazione è molto scettica sul nucleare non solo perché colpita psicologicamente dalla tragedia giapponese, ma perchè ha ancora bene in mente Chernobyl nel 1986 che lasciò dei segni significativi nel nord-est del Paese e soprattutto per il terremoto di 6.3 gradi della scala Richter che sconvolse nel 1998 la città di Adana, una città a circa dieci miglia da Akkuyu vicinissima alla faglia di Ecemis.

Fonte: (solveclimatenews)

lunedì 21 marzo 2011

WORLD WATER DAY 2011 - 22.03.2011

Anche quest’anno vi voglio segnalare la "Giornata mondiale dell'acqua 2011" dal tema "acqua e urbanizzazione". L'evento è stato istituito dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1992 e si tiene ogni anno il 22 marzo. La ricorrenza vuole mettere in evidenza la grande crisi idrica mondiale. Il tema scelto per l'anno 2011, incentrato sulle risorse idriche e le conglomerazioni urbane, porrà interrogativi e metterà a confronto governanti, associazioni, rappresentanti delle attività produttive e pubblici cittadini, che si confronteranno in occasione dei numerosi appuntamenti organizzati. L’avvenimento principale è stato messo in atto dal Ministero delle risorse idriche del Sud Africa e si svolgerà dal 20 al 22 marzo 2011, quando migliaia di persone da tutto tutte le parti del mondo il pianeta si raffronteranno nell'ambito di una Conferenza Internazionale nella città di Città del Capo.

Fonte: ( worldwaterday )

giovedì 17 marzo 2011

Acque tossiche in Sudafrica


Un grande problema del Sudafrica, e più precisamente di Johannesburg, è la presenza di acque tossiche nel sottosuolo. La situazione nasce al momento della chiusura delle miniere, quando anche le pompe smettono di funzionare, facendo accumulare acque provenienti dal sottosuolo e da quelle delle piogge (eccezionali a Johannesburg quest’anno).

L’acqua riempie tutti i cunicoli caricandosi di acido solforico, di metalli pesanti, di uranio e di cobalto, creando un cocktail venefico, chiamato “fool’s gold” per il suo colore giallo, che sale piano piano in superficie. Questo liquido ad alto tasso di tossicità sta attualmente riempiendo i tunnel delle miniere d’oro con una velocità di 0,35 metri al giorno, che incrementa fino a 0,9 durante la stagione delle piogge. Se il livello continuasse a salire le acque potrebbero apparire in superficie già all’inizio del 2012 rendendo il suolo della città sudafricana una fanghiglia acida e velenosa e danneggiando gli edifici e le infrastrutture.

L'acqua acida si trova ora tra i 500 e i 550 metri sotto la superficie: gli esperti ritengono che 150 metri è la soglia critica, al di sopra della quale l’impatto ambientale comporterebbe dei movimenti del terreno e la possibile formazione di doline.

L’approvvigionamento di acque sotterranee della regione diventa sempre più problematico fino a che non saranno ultimate le costruzioni di nuovi impianti di trattamento di pompaggio e trattamento delle acque sollecitati dal Ministero dell’Ambiente e promesso dal Governo sudafricano entro un anno e mezzo.

Questo problema ambientale in Sud Africa è secondo solo al riscaldamento globale in termini di impatto, e rappresenta un grave rischio per tutta l'area cittadina.

Fonte: (Circle of blue)

sabato 5 marzo 2011

Terre rare

L’Europio, il Samario, il Lantanio, non sono altro che i nomi di alcuni dei 17 minerali che fanno parte delle terre rare (in inglese “rare earth elements” o “rare earth metals”) e sono rappresentati nella tavola periodica come elementi chimici.

Sono materiali dai nomi insoliti diffusi un po’ ovunque nella crosta terrestre, la cui estrazione comporta tecniche non troppo diverse da quelle tradizionali, ma ad alto tasso di inquinamento da scorie, anche radioattive.

Senza questi 17 elementi rari non è possibile produrre niente di tutto ciò che oggi dà vita all’industria più avanzata. Il neodimio, per esempio, è l’elemento essenziale per la produzione di batterie e motori delle auto ibride o elettriche, per l’hardware dei computer, per i cellulari e per le telecamere. In campo militare l’ossido neodimio è un “ingrediente” indispensabile nei magneti che azionano le ali direzionali dei missili di precisione. Con l’europio e l’ittrio si producono invece le fibre ottiche e le lampadine «verdi»; lo scandio è la materia prima dell’illuminazione da stadio, mentre il prometio serve per i macchinari medici di ultima generazione.

All’inizio degli anni '90 Deng Xiaoping aveva proclamato che " le Terre rare sono alla Cina quello che il Petrolio é per il Medio-Oriente. ", ed attualmente nessuna delle grandi multinazionali, da Philips a Siemens, da Toyota a Nokia, a Hewlett Packard a Apple, fino a Sony e Canon, può produrre i propri beni più preziosi senza rifornirsi dalla Cina.

ùLe stime dicono che il 12% dei giacimenti è negli Stati Uniti, il 18% nell’ex Unione Sovietica, quantitativi minori sono sparsi in molti altri paesi e, a seconda delle stime, fra il 37% e il 58% risiede in Cina. Troviamo anche molte miniere in Afghanistan, ma i costi di estrazione delle terre rare è molto oneroso e non concorrenziale con quello cinese che le vende in tutto il mondo ad un prezzo decisamente basso. Ma già dal 2009 la Cina ha diminuito in modo drastico le esportazioni delle terre rare, dicendo che deve preservarle per ragioni ambientali e per le proprie esigenze.

Per il 2011 la Cina ha già annunciato una ulteriore riduzione delle esportazioni. La notizia preoccupa le industrie di alta tecnologia, in particolare il Giappone verso il quale Pechino ha persino bloccato l’esportazione a settembre durante una disputa per la sovranità su un gruppo di isole. Ora Tokyo progetta di creare un riciclaggio delle terre rare, come pure di cercare loro sostituti. Stati Uniti, Australia e altri produttori avevano fermato l’estrazione perché non redditizia, di fronte all’economica produzione cinese. Ma ora è ripresa la ricerca e l’estrazione di questi minerali, anche se occorrerà tempo per raggiungere una produzione adeguata.

E Pechino mostra tutte le intenzioni di far leva sul suo potere di mercato in questo campo per obbligare il resto del mondo ad accettare le proprie condizioni: queste comportano non solo un trasferimento netto di capitali, ma anche di lavoro e soprattutto di segreti industriali dall’Occidente verso la Repubblica Popolare.

La Cina, negli ultimi mesi, ha profuso enormi sforzi nella costruzione di una riserva strategica di terre rare. Non sono noti i dettagli del sito di stoccaggio ma secondo quanto riferito dalle agenzie di stato cinesi, dalle dichiarazioni delle aziende statali e dai report dei media statali sembrerebbe che il complesso sia stato costruito nella regione della Mongolia interna. Con una capacità di stoccaggio di terre rare che ammonta a più del totale di quanto esportato lo scorso anno dalla Cina (39.813 tonnellate) la riserva potrebbe avere la capacità di influenzare l’intero mercato globale, già ampiamente dominato dalla Cina, la quale, al giorno d’oggi, controlla più del 90% della produzione globale di terre rare.


Fonte: (giornalettismo)


domenica 20 febbraio 2011

Forse si parte


In effetti il 2011 porta notizie buone dopo anni di discussioni e polemiche: sembra che il mastodontico progetto Desertec stia partendo.

Il progetto Desertec prevede l'utilizzo di tante forme di energia pulita come maree, onde, biomasse oltre all’ eolico, al fotovoltaico e al termodinamico.

Insomma un grande meccanismo che si muove nella direzione di una vera sfida per rilanciare le energie rinnovabili come produttori primari di energia.

Il programma eolico ha l'obiettivo di alimentare dei grandi generatori a elica con il forte e costante vento che soffia nel nord dell’ Europa e che interessa la Gran Bretagna, Irlanda, Svezia, Danimarca, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Norvegia.

Per accumulare questa energia eolica prodotta in surplus, hanno pensato di creare delle barriere naturali date dai fiordi norvegesi.

Questi saranno sbarrati con dighe realizzando dei bacini idroelettrici alimentati con l'acqua pompata per mezzo dell'energia eolica in eccesso, per poi rialzare le dighe e sfruttare l'effetto cascata con la conseguente produzione di energia nelle turbine a valle, quando l'energia eolica è in difetto rispetto alla richiesta globale.

Passando dal nord Europa al nord Africa, lo sfruttamento passa dall’eolico al solare, dove da anni si parla e si studia per sfruttare l’energia solare della zona sahariana.

L’idea si basa sul fatto che la produzione di energia solare che arriva in circa 6 ore nel continente africano rappresenta la quantità di energia solare eguale a quella consumata in tutto il globo in un anno.

I calcoli dicono che basterebbe coprire con impianti solari solamente lo 0,3% dei deserti nordafricani e mediorientali per poter fornire energia all’intera Europa oltre che al fabbisogno delle zone produttrici.

In questo gigantesco piano di lavoro l’interesse italiano viene rappresentato da tre società italiane come: Terna, Enel, e Italgen (Italcementi). Queste contribuiranno alla costruzione nella zona del Maghreb di centrali fotovoltaiche.

Gli impianti solari nel progetto Desertec, promosso dal fisico Gerhard Knies, si basano sulla tecnologia solare termodinamica, quella già attuata da Rubbia nel progetto Archimede di Priolo e in Spagna. L'energia solare viene riflessa dagli specchi e concentrata verso un tubo per riscaldare il liquido contenuto e dare luogo a una circolazione naturale all'interno dell'impianto. Il flusso del liquido genera energia utile per azionare le turbine e quindi produrre energia.

Questi impianti sono in grado di coprire il fabbisogno crescente di desalinizzazione dell’acqua marina e di produzione di elettricità in tali paesi e inoltre di generare corrente pulita che può essere trasportata in Europa mediante cavi a corrente continua ad alta tensione (HVDC High Voltage Direct Current) con perdite complessive limitate al 10-15%.

Il progetto nell’arco degli anni non è stato esente da critiche e il costo eccessivo senza dubbio è stato messo in primo piano. Il progetto Desertec richiede un investimento di 400 miliardi di euro. Questa tecnologia ancora sperimentale ha sofferto non poco nell’accedere a dei finanziamenti concreti. Di certo oggi la l’avvio del progetto dipende dalla situazione economico-politico e sociale che sta investendo in queste ore tutte le nazioni nordafricane comprese nel programma.

Fonte: ( Desertecitaly )

mercoledì 2 febbraio 2011

Dal cashmere alle miniere

La Mongolia è grande cinque volte l’Italia ma ha solo 2,75 milioni di abitanti, di cui il 40% concentrati nella capitale Ulan Bator. Più di un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà 101.600 tugrik (60 euro) mensili nonostante nell’ultimo anno ci sia stata una crescita economica dell’8%: vent’anni dopo il collasso del comunismo il paese è a un nuovo punto di svolta.

La Mongolia, oggi è il Paese meno densamente popolato del mondo, con quattro persone per miglio quadrato. Si estende tra praterie sconfinate, steppe, foreste subartiche sempreverdi, zone umide, tundra alpina, montagna, e deserto. In questo contesto vivono; yak, capre, renne, cammelli, lupi, orsi, marmotte, scoiattoli, falchi, aquile e gru, e soprattutto alcuni degli ultimi popoli nomadi con i tradizionali cavalli selvaggi.

Negli ultimi dieci anni una combinazione di catastrofi economiche e climatiche hanno costretto molti mongoli provenienti dalle zone rurali a cercare opportunità nella capitale Ulan Bator, e la città si è ingrandita enormemente, da 300.000 a circa un milione di oggi .

La catastrofe economica sicuramente è derivata della crisi economica mondiale che ha portato ad una drastica riduzione della domanda del cashmere abbattendo radicalmente il prezzo della pregiata lana, fonte primaria di sopravvivenza, e mettendo per l’ennesima volta in crisi il popolo mongolo.

La catastrofe climatica invece è stata data dall’inverno scorso che è stato terribile per la Mongolia, con temperature sui 50 gradi sotto lo zero e con la neve che ha coperto il territorio mettendo alla fame le mandrie e le quasi diecimila famiglie di pastori nomadi. Circa dieci milioni di bovini, pecore, capre, cavalli, yak e cammelli sono morti, un quinto del totale del paese. Il danno è valutabile in 520 miliardi di tugrik, quasi 300 milioni di euro.

Un sondaggio ha messo in evidenza che queste tragedie hanno portato il 50% dei cittadini ad essere ben disposto ad accettare la nuova opportunità data dagli investimenti minerari. Questi, senza dubbio, rappresentano il futuro cambiamento epocale, dato dal più grande progetto di esplorazione mineraria nella zona di Oyu Tolgoi, nella Mongolia meridionale, con depositi minerari enormi, più grandi dell’intero stato della Florida. Sotto il suolo mongolo ci sono oro, rame, uranio, carbone e terre rare che aspettano solo di essere estratte. Il tutto si sviluppa tramite una joint venture tra una società canadese di nome Ivanhoe e il governo della Mongolia, con un finanziamento significativo dato anche dal colosso minerario cileno Rio Tinto. Insieme, hanno in programma di investire 5 miliardi dollari in operazioni nei prossimi anni, rendendo Oyu Tolgoi il più grande investimento straniero nella storia della Mongolia.

Il governo della Mongolia può tranquillamente essere considerato pro-mining e nel corso della vita previsto di 65 anni della miniera, i ricavi sono destinati a diventare un terzo del prodotto interno lordo della Mongolia. Il boom estrattivo senza dubbio triplicherà o quadruplicherà le dimensioni dell'economia mongola nei prossimi cinque anni, anche se il rapporto tra grandi risorse naturali del paese e la ricchezza della sua gente è ancora da definire.

Fonte: ( Guardian )


martedì 25 gennaio 2011

Aperto nel Regno Unito il più grande parco eolico offshore del mondo

A settembre del 2010 è stato inaugurato a Thanet, al largo della costa del Kent, il Parco Eolico da 100 turbine, un grande primato per il Regno Unito riguardo le energie alternative.

Questo progetto offshore mostra al mondo che la Gran Bretagna genera più energia dal vento rispetto al resto del mondo messo insieme.

La centrale eolica, che è localizzata a circa 12 chilometri dal lago di Foreness Point, nel Kent, è situata sulla costa orientale del paese e può vantare ben 100 aerogeneratori, di cui ognuno presenta circa 3 MW di potenza; l’altezza massima di ciascun aerogeneratore è pari a 115 metri e, nel complesso, i cento aerogeneratori riescono a sviluppare una potenza pari a 300 MW e coprono una superficie pari a 35 chilometri quadrati, in acque profonde al massimo 25 metri. E’ potenzialmente in grado di fornire energia elettrica sufficiente ai bisogni di 200.000 abitazioni.

Fortunatamente Thanet non rimarrà il “più grande del mondo” ancora per molto tempo, in quanto, proprio lungo la stessa costa, è in progetto l’offshore Greater Gabbard con le sue 140 turbine, che sarà seguito dall’ancora più grande sistema di London Array nell'estuario del Tamigi. Una volta completato questo potrebbe generare 1000MW.

Anche altri paesi stanno investendo molto denaro in progetti, come in Svezia a Markbygden, vicino alla città di Piteaa, nel Nord del Paese. Sono stati destinati più di 900 milioni di euro per costruire un bestione da 8-12 terawatt ora per anno, con 1.101 turbine alte fino a 200 metri e distribuite su un’area di circa 450 chilometri quadrati.

I 300 MW prodotti dalla centrale eolica offshore di Thanet, uniti all’ampliamento della centrale eolica di Crystal Rig in Scozia, portano la Gran Bretagna a possedere una capacità di generare energia eolica pari a 5 Gigawatt. Il precedente governo laburista ha sottoscritto un obiettivo UE che indica come obiettivo da raggiungere il 15% di energia derivata da fonti rinnovabili entro il 2020, il che significa circa il 40% dell'elettricità dovrà provenire da eolico, solare, geotermico, maree e delle biomasse con la parte del leone proveniente dal vento. I critici temono che i continui problemi con ritardi di licenza edilizia per turbine eoliche, e la natura "intermittente" del vento, provochi alla Gran Bretagna delle difficoltà a raggiungere questi obiettivi.

Fonte: (Guardian)

domenica 16 gennaio 2011

Ricordiamoci Bhopal


Una immane tragedia sconvolse più di 25 anni fa l’India (notte tra 2 e il 3 dicembre 1984) e più precisamente gli abitanti di Bhopal.

Una fabbrica di pesticidi ( Union Carbide oggi Dow Chemical) fece fuoriuscire in forma gassosa una nube tossica di 40 tonnellate di isocianato di metile.

Nei primi 3 giorni morirono dalle 8 alle 10.000 persone, mentre altre 25 mila morirono in seguito alle complicazioni.

Le migliaia di sopravissuti hanno trascorso questo lungo periodo di oltre un quarto di secolo in condizioni precarie per i postumi che hanno intaccato le vie respiratorie, causato problemi neurologici, della pelle e degli occhi.

Il gas disperso ha inquinato il territorio, le falde acquifere e nell’acqua che scorre vicino all’impianto è stato rilevato un contenuto di pesticidi del 40% superiore alle normative indiane mentre un altro campionamento evidenziava una percentuale di ben 2400 volte superiore alle normative internazionali. Mi limito a ricordare questa tragedia anche se non posso esimermi dal denunciare il trattamento che la società Union Carbide ha riservato dopo anni di dibattimenti in tribunale ai sopravissuti con problemi.

Il problema è stato risolto con un indennizzo di 470 milioni di dollari, cifra irrisoria rispetto ai 10 miliardi di dollari calcolati dalle commissioni competenti.

Purtroppo, troppo spesso si denunciano in tutto il mondo fuoriuscite di sostanze “sconosciute” da impianti chimici, dando la sensazione ai cittadini che a quanto pare tragedie come Bhopal si dimenticano molto facilmente.

Venticinque anni dopo Bhopal, migliaia di sopravvissuti e gli abitanti locali sono ancora in attesa di giustizia, e milioni di persone in tutto il mondo non sono adeguatamente informati in merito o protetti da prodotti chimici usati vicino alle loro case. Abbiamo bisogno di fare un lavoro migliore con la sicurezza chimica, perché le conseguenze del fallimento sono tragiche.

Fonte: (Scienceblogs)

martedì 11 gennaio 2011

Una nuova plastica a base di latte e argilla

Dal mais e dallo zucchero sono già state costruite delle bio plastiche, ma oggi all’Università di Cleveland si sta creando un prodotto molto simile al polistirolo, derivante da proteine del latte e dall’argilla, chiamato Aeroclay.

A breve potrebbe sostituire il famoso Styrofoam, usato per gli imballaggi ma derivato dal petrolio.

Le ricerche fatte dal team di Cleveland, con a capo il ricercatore David Schiraldi, sono iniziate con una lunga serie di test che consistevano nel mescolare dell’argilla liofilizzata (materiale facilmente recuperabile in natura e a basso costo) con varie sostanze. Quando si è arrivati al punto di unirla con il latte (caseina proteina del latte vaccino), si sono accorti che il risultato era un materiale soffice e leggero simile al polistirolo.

Il procedimento messo a punto dal gruppo di studiosi è basato sul mettere una pallina di argilla e un po’ d’acqua in un frullatore e dopo due minuti aggiungere della polvere di caseina.

Il risultato è stato una pallina a base di glicerina che ulteriormente messa a congelare come classici cubetti di ghiaccio e poi liofilizzati, ha prodotto un materiale simile al polistirolo però al 98% naturale.

Il prodotto è molto interessante ma ancora da migliorare, in quanto lo Styrofoam è praticamente eterno, mentre i test hanno messo in evidenza che il nuovo prodotto dopo 45 giorni circa si decompone.

Speriamo di vedere a breve questa innovativa bio plastica anche se oltre alla sua limitata durata, ci sono altre cose da verificare come i non sottovalutabili costi di produzione e non per ultimo, l’odore che potrebbe emanare il materiale, simile al latte acido.

Fonte: (Genitron)

domenica 2 gennaio 2011

Israele in aiuto della fame in Africa


Da molti anni lo Stato d'Israele è diventato uno Stato leader nello sviluppo di sistemi irriganti “goccia a goccia”, sfruttati per diminuire l’utilizzo d'acqua in agricoltura. La grande esperienza israeliana è frutto di ricerche atte a risolvere il problema idrico, essendo un Paese molto arido.

La percentuale di aridità è dell’ordine del 47%, senza calcolare la zona del deserto del Negev che porterebbe la percentuale al 60%. Molte zone anche dell’Africa sub-sahariana hanno giornalmente a che fare con il connubio di due parole derivate dalla carenza o assenza di acqua come: aridità e povertà.

La tecnologia “goccia a goccia” sviluppata dall’ Università Ben Gurion del Negev in collaborazione con la Società Netafim, specializzata in irrigazione, riunitesi nel Programma internazionale per le Zone Aride, hanno deciso di esportare la loro esperienza e la tecnologia in favore di alcuni villaggi in Africa. La tecnologia è molto semplice e come viene utilizzata in Israele così viene sfruttata dai piccoli agricoltori del Niger ad un basso costo.

Ad esempio, le donne del villaggio Tanka in Niger si sono riunite in una cooperativa e utilizzando la tecnologia israeliana riescono a coltivare pomodori, melanzane e altre verdure che vengono vendute nei mercati vicini, triplicando il loro reddito, consentendo alle loro famiglie una alimentazione corretta e la possibilità economica di poter far frequentare ai figli una scuola. L’aiuto israeliano non si limita al Niger, ma esistono varie cooperazioni con altri Stati africani.

In Senegal l’Ambasciata israeliana sta sviluppando con alcune società che si interessano di servizi idrici locali, la realizzazione di sistemi che porteranno ad un aumento del 400% la produttività del terreno.

La stessa cosa viene fatta in Sud Africa con ditte locali in zone molto povere come a Eastern Cape. Le Istituzioni israeliane ritengono che con questi aiuti tecnologicamente innovativi, molti piccoli agricoltori del mondo possono sicuramente migliorare le loro condizioni di vita e sicuramente contribuire a ridurre fame e povertà.

Fonte: (Celsias)